Si può fare un Senato nemico della Casta?
di Aldo Giannuli - 02/04/2014Fonte: aldogiannuli
La
riforma del Senato, se non altro, ha avuto il merito di portare allo
scoperto una serie di questioni di alto profilo, innescando un dibattito
come non se ne sentivano da tempo. Anche se si fa sentire
pesantemente l’anchilosi intellettuale di trenta anni di torpore delle
culture politiche. Il dibattito è interessante, ma confuso e giocato
su “quel che sembri”, per cui Renzi sembra l’innovatore e chi gli si
oppone un unico fronte di conservatori amici della casta. Le cose non
stanno così ed una breve puntualizzazione servirà a dissolvere qualche
equivoco.
Il bicameralismo,
storicamente, sorge in Inghilterra, con la rivoluzione del 1689, dal
compromesso fra borghesia emergente –Camera dei Comuni- e principio di
nomina regia –Camera dei Lord-. Poi questa soluzione sarà adottata dal
“compromesso orleanista” delle monarchie parlamentari nel continente.
Con l’avvento delle repubbliche in gran parte di Europa, nel 1918, la
logica avrebbe voluto che il Senato sparisse, non avendo più il suo
referente fondativo, ma le cose non andarono così, perché l’ala
moderata dei nuovi sistemi politici ottenne di conservare il
bicameralismo, diffidando del Parlamento monocamerale nel quale vedeva
l’incarnazione dell’assemblearismo giacobino.
Una
seconda camera, con accorgimenti diversi (diversa base elettorale,
caratterizzazione territoriale, età degli elettori, presenza di membri
di diritto o di nomina presidenziale ecc) avrebbe diviso il Parlamento
dando più ruolo al capo dello Stato ed all’esecutivo. E questa fu la
soluzione adottata dalla Costituente, che rispondeva all’idea moderata
della democrazia in essa prevalente, nella quale incise anche la
tradizione municipalistica del partito cattolico, la cui concezione
della democrazia esaltava il ruolo delle autonomie (il riferimento al
Senato eletto “a base regionale”). Per di più, con una concessione
alla concezione notabilare propria della vecchia guardia liberale: il
collegio uninominale, che poi venne riassorbito nel sistema
proporzionale con l’apposita legge elettorale. I dc Emilio Tosato e
Costantino Mortati furono espliciti nel richiamare i rischi i una
“dittatura dell’Assemblea” e sul ruolo di mediazione del governo, nel
caso di conflitto fra le due Camere.
C’è
chi pensa, del tutto infondatamente che la soluzione bicamerale fosse
voluta della sinistra (magari immaginando una Assemblea Costituente
fatta di partigiani, cosa assolutamente non vera). In realtà il Pci era
per il parlamento monocamerale e finì per accettare a malincuore la
soluzione bicamerale voluta da Dc, liberali e destre.
In
realtà nel quarantennio della Prima Repubblica, la funzione del
bicameralismo fu abbastanza limitata e, nel complesso, si risolse in un
rallentamento dei lavori parlamentari, ma ebbe anche un effetto forse
non previsto: per l’esigenza di ottenere la maggioranza in entrambe le
Camere, si determinò una spinta ad allargare la base delle coalizioni
parlamentari, in modo da coprire eventuali margini di rischio in una
delle due assemblee. E, infatti, quando, come nel caso del secondo
governo Andreotti (1972-3) i margini al Senato furono molto ristretti,
il governo ebbe vita breve e difficile.
Le
cose sono poi cambiate con l’avvento del maggioritario che, per sua
natura, blinda le coalizioni, non consentendo allargamenti successivi.
Ma la diversa composizione del corpo elettorale delle due camere e la
loro diversa base elettorale (nazionale per la Camera, regionale per il
Senato) determinava il rischio di maggioranze differenziare nei due
rami del Parlamento, cosa cui si andò molto vicini nel 1994 e nel 2006 e
poi effettivamente accaduta nel 2013. Infatti, nessun paese a regime
parlamentare e maggioritario ha un bicameralismo perfetto, cosa di cui,
colpevolmente, non tenne conto la Corte Costituzionale nel 1993,
quando ammise il referendum golpista di Segni, Occhetto e Pannella, che
dette il via al processo di scasso costituzionale di fronte al quale
ci troviamo.
Dunque, in sé il
bicameralismo perfetto è una soluzione moderata e poco funzionale, e
una razionalizzazione del sistema andrebbe nel senso del suo
superamento. Ma la questione non può essere affrontata solo sulla base
di astratte considerazioni sistemiche, ed occorre tener conto anche
delle concrete dinamiche politiche in atto. Fra le devastanti
conseguenze del passaggio al maggioritario, c’è la deriva populista e
la formazione di partiti personali con la conseguente tendenza a
semplificare il processo decisionale, sino a ridurlo alle sole
decisioni del leader. E il successo di Renzi in un partito come il Pd
conferma questa tendenza anche se in forma caricaturale.
In
questo quadro, l’eliminazione tout court del Senato finisce per
favorire ulteriormente la deriva liberticida ed anticostituzionale del
nostro ordinamento. Dunque, è del tutto ragionevole opporsi alla
proposta di Renzi, ma la soluzione non può essere la difesa
dell’esistente che, oltretutto, è una prospettiva perdente. Se
andassimo ad un referendum di ratifica della riforma di Renzi, non c’è
dubbio, almeno per ora, che lo perderemmo. Sarebbe solo un plebiscito
per lui che passerebbe come l’eroe anticasta.
La
strada deve essere un’altra. C’è un difetto di base nel nostro
sistema: la scarsa funzionalità dei meccanismi di controllo e garanzia.
Che senso ha discutere la pregiudiziale di costituzionalità in una
Assemblea in cui c’è già una maggioranza precostituita che la
respingerà? E che garanzia di controllo sull’operato del governo
potranno dare le commissioni di inchiesta o quelle di vigilanza
(Servizi Segreti e Rai) elette dalla stessa maggioranza che concede la
fiducia al governo? E non cambia niente se la presidenza di alcune di
queste commissioni viene data a partiti di opposizione, tanto poi la
maggioranza dei commissari resta di colore governativo.
A
questo punto, potrebbe risultare utile dividere le funzioni: quelle
di indirizzo politico (fiducia al governo, mozioni di politica estera e
attività legislative) alla Camera dei deputati e, invece, funzioni di
controllo (interrogazione, inchiesta, commissioni di vigilanza, messa
in stato d’accusa del Presidente, nomina delle authority ecc) e di
garanzia costituzionale (pregiudiziali costituzionali, elezione dei 5
membri della Consulta e del terzo del Csm) al Senato. Magari
aggiungendo anche il potere di ammonizione del Capo dello Stato che,
senza incorrere nei reati di attentato alla Costituzione ed alto
tradimento, faccia uso improprio dei suoi poteri.
Ovviamente
un’ assemblea del genere non può essere espressione dei partiti, per
cui dovrebbe essere eletta con un metodo né maggioritario né
proporzionale, ma con candidature individuali in ampi collegi
plurinominali (ad es le circoscrizioni delle europee o, anche, una sola
circoscrizione nazionale). Aggiungo: con il divieto esplicito di
simboli di partito, di dichiarazioni di voto o attività di propaganda
in qualsiasi forma di partiti a favore di candidati, attività che,
invece, potrebbero essere svolte dalle associazioni culturali,
imprenditoriali, sindacali ecc. della società civile. Ovviamente
risulterebbero eletti quanti ottengono il maggior numero di voti. Un
Senato nemico e controllore della Casta, il carabiniere della
Costituzione. E per un Senato del genere 70 o 80 membri sarebbero più
che sufficienti.
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