giovedì 1 maggio 2014

ALLEGORIA DELLA CAVERNA DI PLATONE ... PIU' CHE MAI ATTUALISSIMA




ALLEGORIA  DELLA CAVERNA DI PLATONE
Argomento più che mai attuale ed immanente con conseguenti tragiche ripercussioni sulla futura storia dell’umanità… che se non adeguatamente tutelata finirà per regredire appunto… non ad una vaga idea mitologica… ma ad una concreta realtà di regressione della conoscenza analoga a quella dell’era delle caverne… Speriamo nella capacità umana della preservazione della specie…



«Ora», seguitai, «paragona la nostra natura, per quanto concerne l'educazione e la
mancanza di educazione, a un caso di questo genere.(1) Pensa a uomini chiusi in una
specie di caverna sotterranea, che abbia l'ingresso aperto alla luce per tutta la lunghezza
dell'antro; essi vi stanno fin da bambini incatenati alle gambe e al collo, così da restare
immobili e guardare solo in avanti, non potendo ruotare il capo per via della catena.
Dietro di loro, alta e lontana, brilla la luce di un fuoco, e tra il fuoco e i prigionieri corre
una strada in salita, lungo la quale immagina che sia stato costruito un muricciolo, come i
paraventi sopra i quali i burattinai, celati al pubblico, mettono in scena i loro spettacoli».
«Li vedo», disse.




«Immagina allora degli uomini che portano lungo questo muricciolo oggetti d'ogni
genere sporgenti dal margine, e statue e altre immagini in pietra e in legno delle più
diverse fogge; alcuni portatori, com'è naturale, parlano, altri tacciono».
«Che strana visione», esclamò, «e che strani prigionieri!».
«Simili a noi», replicai: «innanzitutto credi che tali uomini abbiano visto di se stessi e
dei compagni qualcos'altro che le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna di
fronte a loro?”
«E come potrebbero», rispose, «se sono stati costretti per tutta la vita a tenere il capo
immobile?”
«E per gli oggetti trasportati non è la stessa cosa?”
«Sicuro!».
«Se dunque potessero parlare tra loro, non pensi che prenderebbero per reali le cose
che vedono?”
“E’ inevitabile».
«E se nel carcere ci fosse anche un'eco proveniente dalla parete opposta? Ogni volta
che uno dei passanti si mettesse a parlare, non credi che essi attribuirebbero quelle parole
all'ombra che passa?”
«Certo, per Zeus!».
«Allora», aggiunsi, «per questi uomini la verità non può essere altro che le ombre degli
oggetti».
“E’ del tutto inevitabile», disse.
«Considera dunque», ripresi, «come potrebbero liberarsi e guarire dalle catene e
dall'ignoranza, se capitasse loro naturalmente un caso come questo: qualora un
prigioniero venisse liberato e costretto d'un tratto ad alzarsi, volgere il collo, camminare
e guardare verso la luce, e nel fare tutto ciò soffrisse e per l'abbaglio fosse incapace di
scorgere quelle cose di cui prima vedeva le ombre, come credi che reagirebbe se uno gli
dicesse che prima vedeva vane apparenze, mentre ora vede qualcosa di più vicino alla
realtà e di più vero, perché il suo sguardo è rivolto a oggetti più reali, e inoltre,
mostrandogli ciascuno degli oggetti che passano, lo costringesse con alcune domande a
rispondere che cos'è? Non credi che si troverebbe in difficoltà e riterrebbe le cose viste
prima più vere di quelle che gli vengono mostrate adesso?”
«E di molto!», esclamò.
«E se fosse costretto a guardare proprio verso la luce, non gli farebbero male gli occhi e
non fuggirebbe, voltandosi indietro verso gli oggetti che può vedere e considerandoli
realmente più chiari di quelli che gli vengono mostrati?”
“E’ così”, rispose.
«E se qualcuno», proseguii, «lo trascinasse a forza da lì su per la salita aspra e ripida e
non lo lasciasse prima di averlo condotto alla luce del sole, proverebbe dolore e rabbia a
essere trascinato, e una volta giunto alla luce, con gli occhi accecati dal bagliore, non
potrebbe vedere neppure uno degli oggetti che ora chiamiamo veri?”
«No, non potrebbe, almeno tutto a un tratto», rispose.
«Se volesse vedere gli oggetti che stanno di sopra avrebbe bisogno di abituarvisi,
credo. Innanzitutto discernerebbe con la massima facilità le ombre, poi le immagini degli
uomini e degli altri oggetti riflesse nell'acqua, infine le cose reali; in seguito gli sarebbe
più facile osservare di notte i corpi celesti e il cielo, alla luce delle stelle e della luna, che
di giorno il sole e la luce solare».
«Come no? “
«Per ultimo, credo, potrebbe contemplare il sole, non la sua immagine riflessa
nell'acqua o in una superficie non propria, ma così com'è nella sua realtà e nella sua
sede».
«Per forza», disse.
«In seguito potrebbe dedurre che è il sole a regolare le stagioni e gli anni e a governare
tutto quanto è nel mondo visibile, e he in qualche modo esso è causa di tutto ciò che i
prigionieri vedevano».
“E’ chiaro», disse, «che dopo quelle esperienze arriverà a queste conclusioni».
«E allora? Credi che lui, ricordandosi della sua prima dimora, della sapienza di laggiù
e dei vecchi compagni di prigionia, non si riterrebbe fortunato per il mutamento di
condizione e non avrebbe compassione di loro?”
«Certamente».
«E se allora si scambiavano onori, elogi e premi, riservati a chi discernesse più
acutamente gli oggetti che passavano e si ricordasse meglio quali di loro erano soliti
venire per primi, quali per ultimi e quali assieme, e in base a ciò indovinasse con la più
grande abilità quello che stava per arrivare, ti sembra che egli ne proverebbe desiderio e
invidierebbe chi tra loro fosse onorato e potente, o si troverebbe nella condizione
descritta da Omero e vorrebbe ardentemente "lavorare a salario per un altro, pur senza
risorse"(2) e patire qualsiasi sofferenza piuttosto che fissarsi in quelle congetture e vivere
in quel modo?”
«Io penso», rispose, «che accetterebbe di patire ogni genere di sofferenze piuttosto che
vivere in quel modo».
«E considera anche questo», aggiunsi: «se quell'uomo scendesse di nuovo a sedersi al
suo posto, i suoi occhi non sarebbero pieni di oscurità, arrivando all'improvviso dal
sole?”
«Certamente», rispose.
«E se dovesse di nuovo valutare quelle ombre e gareggiare con i compagni rimasti
sempre prigionieri prima che i suoi occhi, ancora deboli, si ristabiliscano, e gli occorresse
non poco tempo per riacquistare l'abitudine, non farebbe ridere e non si direbbe di lui
che torna dalla sua ascesa con gli occhi rovinati e che non vale neanche la pena di
provare a salire? E non ucciderebbero chi tentasse di liberarli e di condurli su, se mai
potessero averlo tra le mani e ucciderlo?»(3) «E come!», esclamò.
«Questa similitudine», proseguii, «caro Glaucone, dev'essere interamente applicata a
quanto detto prima: il mondo che ci appare attraverso la vista va paragonato alla dimora
del carcere, la luce del fuoco che qui risplende all'azione del sole; se poi consideri la salita
e la contemplazione delle realtà superiori come l'ascesa dell'anima verso il mondo
intellegibile non ti discosterai molto dalla mia opinione, dal momento che desideri
conoscerla.
Lo saprà un dio se essa è vera. Questo è dunque il mio parere: l'idea del bene è il limite
estremo del mondo intellegibile e si discerne a fatica, ma quando la si è vista bisogna
dedurre che essa è per tutti causa di tutto ciò che è giusto e bello: nel mondo visibile ha
generato la luce e il suo signore, in quello intelligibile essa stessa, da sovrana, elargisce
verità e intelletto, e chi vuole avere una condotta saggia sia in privato sia in pubblico
deve contemplare questa idea».
«Sono d'accordo con te», disse, «nei limiti delle mie facoltà».
«Allora», continuai, «condividi anche questo punto e non meravigliarti che chi è
giunto fin qui non voglia occuparsi delle faccende umane, ma la sua anima tenda sempre
a dimorare in alto; ciò è ragionevole, se la similitudine fatta prima è ancora valida».
«Sì, è ragionevole», disse.
«Ebbene, credi che ci sia qualcosa di strano se uno, passando dagli spettacoli divini alle
cose umane, fa delle brutte figure e appare del tutto ridicolo, in quanto si muove a
tentoni e prima di essersi ben abituato all'oscurità di quaggiù è costretto a difendersi nei
tribunali o altrove dalle ombre della giustizia o dalle immagini che queste ombre
proiettano, e a contestare il modo in cui esse sono interpretate da coloro che non hanno
mai veduto la giustizia in sé?”
«No, non è affatto strano», rispose.
«Ma una persona assennata», ripresi, «si ricorderebbe che i disturbi agli occhi sono di
due tipi e duplice è la loro causa: il passaggio dalla luce all'oscurità e dall'oscurità alla
luce.
Considerando che la stessa cosa accade all'anima, qualora ne vedesse una turbata e
incapace di vedere non riderebbe sconsideratamente, ma esaminerebbe se è ottenebrata
dalla mancanza d'abitudine perché proviene da una vita più luminosa, o è rimasta
abbagliata da una luce più splendida perché procede verso una vita più luminosa da una
maggiore ignoranza, e allora stimerebbe felice l'una per ciò che prova e per la vita che
conduce, e avrebbe compassione dell'altra; e quand'anche volesse ridere di questa, il suo
riso riuscirebbe meno inopportuno che se fosse riservato all'anima proveniente dall'alto,
alla luce».
«Hai proprio ragione!», esclamò.
«Se questo è vero», dissi, «dobbiamo concludere che l'educazione non è come la
definiscono certuni che si professano filosofi.
Essi sostengono di instillare la scienza nell'anima che non la possiede, quasi
infondessero la vista in occhi che non vedono».(4) «In effetti sostengono questo»,
confermò.
«Ma il discorso attuale», insistetti, «rivela che questa facoltà insita nell'anima di
ciascuno e l'organo che permette di apprendere devono essere distolti dal divenire
assieme a tutta l'anima, così come l'occhio non può volgersi dalla tenebra alla luce se non
assieme all'intero corpo, finché non risultino capaci di reggere alla contemplazione
dell'essere e della sua parte più splendente; questo, secondo noi, è il bene. O no?”
«Sì”.
«Può quindi esistere», proseguii, «un'arte della conversione, che insegni il modo più
facile ed efficace di girare quell'organo. Non si tratta di infondervi la vista, bensì,
presupponendo che l'abbia, ma che non sia rivolto nella giusta direzione e non guardi là
dove dovrebbe, di adoperarsi per orientarlo da questa parte».
«Pare di sì”, disse.
«Pertanto le altre cosiddette virtù dell'anima sono probabilmente vicine a quelle del
corpo: in effetti, se all'inizio mancano, è facile che poi vengano infuse con l'abitudine e
l'esercizio. Invece la virtù dell'intelletto, a quanto pare, riguarda più d'ogni altra un
qualcosa di più divino, che non perde mai il suo potere e per effetto della conversione
diventa utile e giovevole o viceversa inutile e dannoso. Non hai ancora notato come
l'animuccia di quelli che sono considerati malvagi, ma in gamba, abbia uno sguardo
penetrante e discerna con acutezza ciò a cui si rivolge, poiché la sua vista non è scarsa,
ma è costretta a servire la malvagità, al punto che quanto più acutamente vede, tanto
maggiori sono i mali che produce?”
«Proprio così”, rispose.
«Tuttavia», aggiunsi, «se a una natura simile fossero amputati sin dall'infanzia quella
sorta di pesi di piombo congeniti al divenire, che si attaccano a lei con i cibi, i piaceri
della gola e le leccornie e torcono la vista dell'anima verso il basso; se, liberatasi di essi, si
convertisse alla verità, la stessa natura di queste persone vedrebbe la realtà con la
massima acutezza, come vede ciò cui ora è rivolta».
“E’ logico», disse.
«E allora», domandai, «non è una conseguenza 1ogica, anzi inevitabile delle nostre
premesse, che né gli uomini incolti e ignari della verità, né quelli cui viene permesso di
passare tutta la loro vita nello studio potranno mai governare una città in modo
adeguato, gli uni perché non hanno nella vita un unico scopo cui deve mirare ogni loro
azione privata e pubblica, gli altri perché non lo faranno di loro volontà, ritenendo di
essersi trasferiti ancora vivi nelle Isole dei beati?”
«Vero», rispose.
«Il nostro compito di fondatori», continuai, “E’ dunque quello di costringere le
migliori nature ad apprendere ciò che prima abbiamo definito la cosa più importante,
cioè vedere il bene e compiere quell'ascesa, e di non permettere loro, una volta che siano
salite e abbiano visto a sufficienza, ciò che ora è concesso».
«Che cosa?”
«Di rimanere là», risposi, «e non voler ridiscendere tra quei prigionieri e partecipare
alle loro fatiche e ai loro onori, che siano più o meno seri».
«Allora», chiese, «useremo loro ingiustizia e li faremo vivere peggio, quando hanno la
possibilità di vivere meglio?”
«Ti sei dimenticato di nuovo, mio caro», replicai, «che la legge non si prefigge
l'obiettivo di procurare un particolare benessere a una sola classe della città, ma si
adopera perché ciò si verifichi nella città intera, armonizzando i cittadini con la
persuasione e la costrizione e obbligandoli a mettere in comune tra loro l'utile che
ciascuno è in grado di fornire alla collettività; la legge stessa forgia cittadini simili non
per lasciarli liberi di volgersi dove ciascuno vuole, ma per creare tramite loro il vincolo
che tenga la città unita».
“E’ vero», ammise: «me n'ero dimenticato».
«Considera dunque, Glaucone», continuai, «che non faremo un torto a coloro che
nascono filosofi presso di noi, ma porremo loro giuste richieste costringendoli a
prendersi cura degli altri e a proteggerli. Infatti diremo: "Per coloro che nascono filosofi
nelle altre città è naturale non partecipare alle fatiche della vita pubblica, in quanto si
sviluppano da sé, contro il volere della costituzione vigente in ciascuna di esse, e ciò che
si sviluppa da sé, non essendo debitore a nessuno della propria crescita, è giusto che non
si preoccupi di pagarne a nessuno il prezzo. Noi invece abbiamo generato voi per voi
stessi e per il resto della città come capi e re in un alveare, poiché avete ricevuto
un'educazione migliore e più perfetta di loro e siete più capaci di svolgere entrambe le
attività.(5) Pertanto dovete scendere, ciascuno al suo turno, nella dimora degli altri e
abituarvi a guardare ciò che è avvolto nella tenebra; e una volta che vi sarete abituati
vedrete mille volte meglio di quelli laggiù e conoscerete quali sono le singole immagini e
quali oggetti riflettono, perché avrete visto la verità sul bello, sul giusto e sul bene. Così
la città sarà governata da noi e da voi in stato di veglia e non di sogno, mentre ora la
maggior parte degli Stati è retta da uomini che combattono tra loro a vuoto e lottano per
il potere come se fosse un grande bene. Ma la verità è questa: la città in cui i futuri
governanti sono meno smaniosi del potere è necessariamente governata nel modo
migliore e più stabile, mentre quella che ha governanti contrari si trova nella situazione
contraria».
«Precisamente», disse.
«Credi dunque che i nostri discepoli, all'udire queste parole, non ci obbediranno e si
rifiuteranno di condividere, ciascuno al suo turno, le fatiche della vita pubblica, e
vorranno passare la maggior parte del tempo tra di loro nel puro mondo delle idee?”
«Impossibile», rispose, «perché impartiremo ordini giusti a uomini giusti. La cosa più
importante di tutte è che ciascuno di loro affronterà l'esercizio del potere come una
necessità inevitabile, al contrario degli attuali governanti di ogni città».
“E’ così, amico», ripresi. «Se per i futuri governanti troverai una condizione di vita
migliore del potere, la tua città può diventare ben governata, perché sarà l'unica in cui
governeranno coloro che sono realmente ricchi, non di oro ma della ricchezza che deve
possedere l'uomo felice, ossia di una vita onesta e saggia.
171
Ma se le cariche pubbliche sono occupate da individui poveri e affamati di proprietà
privata, che pensano di doverne ricavare il proprio guadagno, questa possibilità non può
sussistere, in quanto il potere diventa oggetto di contesa e una simile guerra intestina e
civile manda in rovina loro e il resto della città».
«Verissimo», disse.
«Mi sai quindi indicare», chiesi, «un genere di vita che disprezzi le cariche politiche e
non sia quello della vera filosofia?”
«No, per Zeus!», esclamò.
«D'altra parte non deve salire al potere chi ne è appassionato amante, altrimenti i rivali
si combatteranno tra loro».
«Come no?”
«Ma chi altri costringerai a proteggere la città, se non coloro che intendono il modo
migliore di governarla, godono di altri onori e conducono una vita più virtuosa di quella
dell'uomo politico?”
«Nessun altro», rispose.
«Vuoi dunque che ora esaminiamo il modo di formare tali persone e di condurle alla
luce, come si dice che alcuni dall'Ade siano ascesi tra gli dèi?”
«Certo che lo voglio!», esclamò.
«Questo però, a quanto sembra, non sarà come girare un coccio,(6) ma comporterà una
conversione dell'anima da un giorno di tenebra notturna a un giorno vero, ossia
un'ascesa verso l'essere, che noi chiameremo la vera filosofia».
«Appunto».
«Bisogna dunque esaminare quale disciplina possieda tale facoltà?”
«Come no?”
«E quale sarà, Glaucone, la disciplina che trascina l'anima dal divenire all'essere?
Mentre parlo mi viene in mente una cosa: non abbiamo detto che questi uomini devono
sin da giovani essere atleti della guerra?”
«Sì, l'abbiamo detto».
«Quindi la disciplina che cerchiamo deve mirare anche a questo».
«A che cosa?”
«A non essere inutili ai guerrieri».
«Sì”, rispose, «se è possibile».
«Prima noi li abbì amo educati nella ginnastica e nella musica».
«Proprio così”, disse.
«E la ginnastica si occupa di ciò che nasce e perisce, in quanto sorveglia la crescita e il
deperimento del corpo».
«Pare».
«Pertanto questa non può essere la disciplina che cerchiamo».
«No di certo».
«Forse allora è la musica, come l'abbiamo descritta prima?”
«Ma quella», obiettò, «se ti ricordi, era il corrispettivo della ginnastica: educava i
guardiani con la forza delle abitudini, conferiva attraverso l'armonia il senso della
proporzione, non una scienza, attraverso il ritmo l'eleganza, e conteneva nelle narrazioni,
sia quelle mitiche sia quelle più veridiche, certi altri caratteri affini a questi; ma neppure
in essa era presente una disciplina che guidasse a ciò che tu ora cerchi».
«Me lo stai rammentando con grande precisione», dissi; «sì, in realtà non conteneva
nulla di simile. Ma allora quale sarà mai questa disciplina, esimio Glaucone? Le arti ci
sono sembrate tutte quante vili...».
«Come no? Eppure quale altra disciplina rimane, tolte la musica, la ginnastica e le
arti?”
«Via», dissi, «se non abbiamo più null'altro da prendere, rivolgiamoci a una disciplina
che abbia un'applicazione generale».
«Quale?”
«Ad esempio quella disciplina comune di cui si servono tutte le arti, le opinioni
intellettuali e le scienze, e che ognuno deve per forza imparare molto presto...”
«Ossia?», domandò.
«Quella molto semplice», risposi, «che distingue l'uno, il due e il tre: insomma, sto
parlando del numero e del calcolo.(7) Non è forse vero che ogni arte e scienza è costretta
a essere partecipe di queste nozioni?”
«E come!», esclamò.
«Quindi anche l'arte della guerra?», chiesi.
“E’ assolutamente necessario», rispose.
«E allora», osservai, “E’ un comandante davvero ridicolo l'Agamennone delle tragedie,
come ce lo presenta ogni volta Palamede!(8) Non hai capito che questi, l'inventore del
numero, afferma di aver disposto le schiere in campo a Ilio e di aver contato le navi e
tutto il resto, come se prima d'allora non le avessero mai contate e Agamennone, a
quanto risulta, non conoscesse neanche il numero dei suoi piedi, se davvero non sapeva
contare? Ma che razza di comandante era, secondo te?”
«Un comandante ben strano», rispose, «se questo corrispondesse a verità!».
«Porremo dunque», domandai, «come altra nozione necessaria al guerriero la
conoscenza del calcolo e dei numeri?”
«Soprattutto questa», rispose, «se egli vuole capire qualcosa di tattica, o piuttosto se
vuole essere un uomo».
«E su questa disciplina sei d'accordo con me?», chiesi.
«A che proposito?”
«Probabilmente essa per sua natura fa parte di quelle discipline che cerchiamo e che
guidano verso la conoscenza intellettiva, ma nessuno ne fa un uso corretto, sebbene sia
davvero capace di trarre verso l'essere in sé».
«Che cosa intendi dire?”
«Cercherò di chiarire il mio pensiero», risposi. «Tu osserva assieme a me la distinzione
che opero tra ciò che conduce e ciò che non conduce alla nostra mèta, e concedi oppure
rifiuta il tuo assenso: così vedremo più chiaramente se la mia congettura corrisponde alla
realtà».
«Dimostramelo», disse.
«Eccoti la mia dimostrazione», ripresi: «se ci fai caso, alcuni oggetti sensibili non
invitano l'intelletto a indagarli, in quanto sono sufficientemente vagliati dai sensi, altri
invece gli impongono in tutti i modi questo esame, in quanto i sensi non ne ricavano
nulla di valido».
“E’ chiaro», disse, «che tu parli degii oggetti che si vedono da lontano e di quelli
dipinti in prospettiva».
«Non hai afferrato pienamente il senso delle mie parole», dissi.
«E allora di quali oggetti parli?», domandò.
«Gli oggetti che non invitano all'indagine», spiegai, «sono quelli che non generano
contemporaneamente sensazioni opposte; quelli che invece le producono li considero
stimolanti alla riflessione, ogni qual volta la sensazione, che provenga da vicino o da
lontano, non indica affatto un oggetto più che il suo contrario.
Capirai più chiaramente il mio pensiero con il seguente esempio.
Queste, diciamo, sono tre dita: il pollice, l'indice e il medio».
«Certo», rispose.
«Ora immagina che io le intenda viste da vicino. Ma su di esse fa' piuttosto questa
considerazione».
«Quale?”
«Ognuno di essi sembra indistintamente un dito, e non c'è alcuna differenza se lo si
guarda al centro o all'estremità, se è bianco o nero, grosso o sottile, e così via. In tutti
questi casi l'anima dei più non è costretta a chiedere all'intelletto che cos'è un dito, perché
in nessun caso la vista le indica che il dito sia allo stesso tempo il suo contrario».
«No di certo», disse.
«Pertanto», proseguii, “E’ logico che un oggetto del genere non possa richiamare né
risvegliare la conoscenza intellettiva».
“E’ logico».
«Ma la vista discerne a sufficienza la grandezza o la piccolezza delle dita, e per essa
non fa alcuna differenza che un dito sia posto al centro oppure all'estremità? E allo stesso
modo il tatto percepisce la grossezza e la sottigliezza, o la mollezza e la durezza? E gli
altri sensi non sono carenti nell'evidenziare queste qualità? Oppure ciascuno di essi
procede così: dapprima l'organo di senso preposto alla durezza è costretto a farsi carico
anche della mollezza, e riferisce all'anima che avverte il medesimo oggetto duro e molle
insieme?”
“E’ così”, rispose.
«Ma non è allora inevitabile», ripresi, «che in simili casi l'anima non sappia con
certezza che cosa intende questa sensazione per duro, se dice che il medesimo oggetto è
anche molle, e quale significato attribuisce la sensazione del leggero e del pesante ai
rispettivi vocaboli, se indica il pesante come leggero e il leggero come pesante?”
«Certo», rispose, «queste interpretazioni sono strane per l'anima e richiedono un
attento esame».
«Pertanto», dissi, “E’ logico che in simili casi l'anima dapprima provi a ricorrere al
calcolo e alla comprensione intellettiva, per esaminare se ognuna delle impressioni che le
viene riportata riguarda una sola cosa oppure due».
«Come no?”
«E se le cose risultano due, ognuna di esse si rivela un'entità singola e diversa
dall'altra?”
«Sì”.
«Se dunque ciascuna di esse è una cosa sola, e l'una e l'altra assieme sono due, l'anima
le concepirà come due entità separate, perché se non fossero distinte non le concepirebbe
come due, ma come una sola».
«Giusto».
«La vista, diciamo, percepiva un qualcosa di grande e di piccolo, non però separati,
bensì confusi. O no?”
«Sì”.
«Per fare chiarezza su questo punto l'intelletto è stato costretto a discernere un grande
e un piccolo, non più confusi ma distinti, al contrario della vista».
«Vero».
«Dunque è da lì che incominciamo a chiederci che cos'è il grande e il piccolo?”
«Certamente».
«In questo modo abbiamo distinto il mondo intellegibile e quello visibite».
«Giustissimo», assentì.
«Ecco che cosa cercavo di esprimere poco fa, dicendo che alcune cose stimolano la
riflessione, altre no; quelle che generano nei sensi due impressioni contrarie nello stesso
tempo le definisco stimolanti, mentre le altre non risvegliano secondo me la conoscenza
intellettiva».
«Ora capisco», disse, «e anch'io la penso così”.
«E a quale di queste due categorie ti sembra che appartengano il numero e l'unità?”
«Non ne ho idea», rispose.
«Deducilo per analogia dalle premesse», dissi. «Se l'unità in sé si coglie a sufficienza
con la vista o con un altro organo di senso, non può attrarre verso l'essere, come abbiamo
detto a proposito del dito; se invece la sua visione suscita sempre impressioni
contraddittorie, così da non apparire unità più che il suo contrario, allora ci vorrà un
giudice che risolva il problema e la sua anima sarà costretta a dubitare e a indagare,
mettendo in moto dentro di sé la riflessione, e a chiedersi che cos'è l'unità in sé; così la
scienza dell'unità potrebbe appartenere a quelle che conducono e convertono alla
contemplazione dell'essere».
«Anzi», aggiunse, «questo è vero soprattutto per la visione dell'unità, poiché noi
vediamo la stessa cosa contemporaneamente come una e di numero infinito».(9) «E se la
cosa vale per l'unità», domandai, «non vale anche per ogni numero?”
«Come no?”
«Ma la scienza del calcolo e dell'aritmetica verte tutta sul numero».
«Certo».
«E queste cognizioni sembra che conducano alla verità».
«In mamera straordinaria!».
«A quanto pare, dunque, potrebbero far parte delle cognizioni che cerchiamo: per un
guerriero è necessario impararle per la tattica, per un filosofo perché deve emergere dal
divenire e toccare l'essere, altrimenti non diventerà mai un esperto di calcolo».
«E così”, disse.
«Quindi il nostro guardiano si trova a essere insieme guerriero e filosofo».
«Sicuro!».
«Pertanto, Glaucone, sarebbe conveniente imporre questa disciplina per legge e
persuadere coloro che devono esercitare nella città le più alte cariche a indiizzarsi verso
la scienza del calcolo e a studiarla non superficialmente, ma fino a raggiungere col puro
intelletto la contemplazione della natura dei numeri, senza usarla per vendere e
comprare, come fanno i mercanti e i bottegai, ma per la guerra e per facilitare la
conversione dell'anima stessa dal divenire alla verità e all'essere».
«Parole magnifiche!», esclamò.
«Ora che si è parlato della disciplina relativa ai calcoli», continuai, «mi rendo conto di
come sia elevata e sotto molti aspetti utiile al raggiungimento dei nostri scopi, se la si
pratica per conoscere, non per trafficare».
«In che senso?», chiese.
«Nel senso che, come abbiamo appena detto, essa conferisce all'anima una forte spinta
verso l'alto e la costringe a ragionare sui numeri in se stessi, senza accettare mai che le si
venga a parlare di numeri presentandoli come dotati di corpi visibili o tangibili. (10) Tu
sai infatti che gli esperti in materia deridono chi tenta di scindere teoricamente l'unità in
sé e non ammettono questo procedimento, ma se tu la dividi, essi la moltiplicano, per
evitare che l'unità non appaia più una, bensì un aggregato di molte parti».
«Quello che dici è verissimo», assentì.
«E se qualcuno, Glaucone, chiedesse loro: "Mirabili uomini, di quali numeri state
parlando, nei quali l'unità è come voi pretendete, ognuna perfettamente uguale all'altra,
senza la minima differenza e senza avere in sé parti distinte?", che cosa risponderebbero,
secondo te?”
«Questo, penso: che essi parlano di ciò che si può solo concepire con l'intelletto e non si
può trattare in nessun altro modo».
«Vedi dunque, caro amico», proseguii, «che forse questa disciplina ci è davvero
necessaria, poiché è evidente che costringe l'anima a fare uso del puro intelletto per
giungere alla pura verità?”
«E in effetti ottiene proprio questo risultato», disse.
«E allora? Avrai già avuto modo di notare che gli individui naturalmente portati per il
calcolo sono, per così dire, acuti d'ingegno in tutte le discipline, mentre coloro che sono
lenti ad apprendere, se istruiti e addestrati nell'aritmetica, pur non ricavandone altra
utilità, fanno tutti per lo meno qualche progresso e diventano più acuti di prima?”
“E’ così”, rispose.
«E comunque penso che non ti sarà facile trovare molte discipline più faticose di
questa per chi la apprende e la pratica».
«No di certo».
«Per tutte queste ragioni essa non va trascurata, ma dev'essere insegnata agli individui
dotati della natura migliore».
«Sono d'accordo», disse.
«Ecco dunque che abbiamo stabilito la prima disciplina», ripresi.
«Come seconda vediamo se ci è utile quella che si connette ad essa».
«Quale?», domandò. «Intendi dire la geometria?”
«Proprio questa», confermai.
«Per quanto attiene alla guerra», disse, “E’ chiaramente utile: corre molta differenza tra
l'essere esperti o meno di geometria quando si tratta di porre l'accampamento, occupare
postazioni, riunire e dispiegare le forze ed eseguire tutte le altre manovre militari in
battaglia e in marcia».
«Ma per questo», obiettai, «può bastare anche una piccola parte di geometria e di
calcolo. Bisogna invece esaminare se la parte maggiore e più progredita della geometria
mira a far scorgere più facilmente l'idea del bene. A questo fine, diciamo, tendono tutte le
discipline che costringono l'anima a volgersi verso quel luogo dove ha sede la parte più
beata dell'essere, che ella deve in ogni modo contemplare».
«Hai ragione», disse.
«Pertanto, se la geometria costringe a contemplare l'essere è utile, se costringe a
contemplare il divenire, no».
«D'accordo».
«Ora», proseguii, «chiunque sia anche solo un poco esperto di geometria non ci
contesterà che questa scienza è tutto il contrario di come la descrivono coloro che la
praticano».
«In che senso?», domandò.
«Essi ne parlano in modo davvero ridicolo e forzato: affermano di tracciare
quadrilateri, prolungare linee, aggiungere figure e così via per scopi pratici, ai quali si
rifanno in tutti i loro discorsi, mentre questa disciplina dev'essere interamente coltivata
solo per la conoscenza».
«Senza dubbio», disse.
«E non bisogna ammettere anche questo?”
«Che cosa?”
«Che si tratta della conoscenza di ciò che eternamente è, non di ciò che nasce e
perisce».
“E’ facile convenirne», disse: «la geometria è effettivamente la conoscenza di ciò che
eternamente è».
«Quindi, nobile amico, essa può trascinare l'anima verso la verità e produrre un
pensiero filosofico, al punto da rivolgere verso l'alto ciò che noi ora teniamo
indebitamente rivolto verso il basso».
«Quanto più è possibile», rispose.
«E in ogni modo possibile», ripresi, «dobbiamo imporre agli abitanti della tua bella
città di non astenersi assolutamente dalla geometria. Infatti anche le sue funzioni
accessorie non sono di poco conto».
«Quali?», domandò.
«Quelle che hai menzionato tu», risposi, «in riferimento alla guerra; inoltre sappiamo
che per un migliore apprendimento di ogni disciplina ci sarà una differenza totale tra chi
è esperto in geometria e chi non lo è».
«Sì, proprio totale, per Zeus!», esclamò.
«Dobbiamo dunque stabilire questa come seconda disciplina per i giovani?”
«Perché avevo fretta», risposi, «di trattare rapidamente tutti questi argomenti, e invece
procedo con maggiore lentezza. Dopo la geometria viene la scienza che tratta la
dimensione della profondità, ma io l'ho saltata per il modo ridicolo in cui la si studia e
dalla geometria sono passato all'astronomia, che si occupa dei solidi in movimento».
«Hai ragione», disse.
«Poniamo quindi l'astronomia», suggerii, «come quarta disciplina, tenendo conto di
quella che ora tralasciamo, nel caso la città voglia coltivarla».
«Così va bene», disse. «Quanto al fatto che prima, Socrate, mi hai rimproverato di
lodare l'astronomia in modo ordinario, ora conformo la mia lode alle tue richieste, poiché
mi sembra chiaro per tutti che essa costringe l'anima a guardare verso l'alto e dalle cose
di questo mondo la conduce lassù».
«Forse», replicai, “E’ chiaro per tutti tranne che per me: io non la penso così”.
«E come, allora?», domandò.
«Dal modo in cui ora la praticano quelli che la innalzano al rango di filosofia, mi
sembra che faccia guardare verso il basso».
«Ma che cosa dici?», fece lui.
«Mi sembra», risposi, «che il tuo modo di concepire lo studio dei corpi celesti non sia
affatto ignobile: probabilmente, se uno osservasse a testa in su le decorazioni di un
soffitto e imparasse qualcosa, tu penseresti che egli guarda con l'intelletto e non con gli
occhi. Forse però hai ragione tu, e io sono uno sciocco. Infatti non riesco a credere che
un'altra scienza spinga l'anima a guardare in alto, se non quella che concerne l'essere
invisibile; e se uno cerca di acquisire qualche cognizione sugli oggetti sensibili, che stia a
bocca aperta verso l'alto o piegato verso il basso, affermo che non potrà mai imparare,
perché di cose simili non esiste scienza, e la sua anima non guarda in alto ma in basso,
anche se studiasse supino, disteso per terra o nuotando in mare».
«Ho quel che mi merito», disse, «e hai fatto bene a rimproverarmi.
Ma in che senso hai affermato che bisogna imparare l'astronomia diversamente da
adesso, se si vuole che questo studio sia utile al nostro scopo?”
«Nel senso che», risposi, «questi ornamenti del cielo si possono ritenere i più belli e
perfetti tra quelli intessuti nella stoffa del mondo visibile, ma sono di gran lunga inferiori
a quelli veri, nei quali la velocità e la lentezza reale si muovono in relazione reciproca e
muovono gli oggetti che racchiudono in sé secondo il vero numero e tutte le vere figure;
ciò si può cogliere con la ragione e il pensiero, non con la vista.(12) O pensi di sì ?”
«Nient'affatto!», esclamò.
«Quindi», proseguii, «bisogna servirsi del ricamo celeste come di un modello per
comprendere le realtà invisibili, come se ci si imbattesse in disegni tracciati ed elaborati
con eccezionale maestria da Dedalo (13) o da qualche altro artefice o pittore. Un esperto
di geometria, se li vedesse, giudicherebbe splendida la loro esecuzione, ma è ridicolo
esaminarli seriamente con l'intenzione di cogliervi la vera essenza dell'uguale o del
doppio o di qualche altro rapporto numerico».
«E come può non essere ridicolo?”
«Non credi dunque», domandai, «che un vero astronomo avrà la stessa impressione,
guardando i moti degli astri? Egli penserà che il cielo e i corpi in esso racchiusi siano stati
realizzati dal loro artefice nel modo migliore in cui si possono compiere tali opere; ma
secondo te non riterrà strano che si consideri il rapporto tra la notte e il giorno, tra questi
e il mese, tra il mese e l'anno e quello degli altri astri con questi e tra loro come fenomeni
immutabili e non soggetti ad alcun cambiamento, benché abbiano un corpo e siano
visibili, e che si cerchi in ogni modo di coglierne la verità?”
«Ad ascoltare queste tue parole, pare così anche a me», rispose.
«Studiamo dunque l'astronomia», ripresi, «allo stesso modo della geometria, cioè per
risolvere problemi particolari, e lasciamo perdere i fenomeni celesti, se vogliamo davvero
occuparci di astronomia e rendere utile la parte naturalmente intelligente dell'anima, da
inutile che era».
«Certo che imponi una fatica molto più gravosa di quanto sia lo studio attuale
dell'astronomia!», esclamò.
«E credo», aggiunsi, «che estenderemo queste imposizioni anche al resto, se la nostra
opera di legislatori serve a qualcosa. Ma sei in grado di ricordare un'altra disciplina
utile?”
«No», rispose, «almeno sul momento».
«Eppure», dissi, «esistono più specie di moto, non una sola, credo.
Forse un sapiente le saprà enumerare: ma quelle manifeste anche a noi sono due».
«Quali?”
«Questa che ho citato», risposi, «e la sua corrispondente».
«Ossia?”
«Probabilmente», dissi, «come gli occhi sono destinati all'astronomia, così le orecchie
sono destinate al moto armonico, e queste due scienze sono tra loro sorelle; e su questo
punto, Glaucone, siamo d'accordo con i Pitagorici. O in che modo dobbiamo porre la
questione?”
«Così”, rispose.
«Allora», proseguii, «dato che si tratta di una faccenda seria, chiederemo il loro parere
sull'argomento e su altre cose ancora. Noi però, a fronte di tutto questo, resteremo fedeli
al nostro principio».
«Quale?”
«Che in queste discipline i nostri futuri alunni non si accingano mai a imparare
qualche nozione imperfetta, che non possa arrivare sempre là dove tutto deve arrivare,
come abbiamo detto poco fa a proposito dell'astronomia. Non sai che fanno un uso simile
anche dell'armonia? Misurando tra loro gli accordi e i suoni percepiti dall'orecchio,
compiono, come gli astronomi, una fatica inutile».
«Sì, per gli dèi, e anche ridicola!», esclamò. «Tirando in ballo certe frazioni di tono e
tendendo l'orecchio, come per captare la voce dei vicini di casa, gli un dicono che tra due
suoni ne percepiscono un terzo, e che questo è l'intervallo minimo da usare come unità di
misura, gli altri ribattono che questi suoni sono tutti uguali; entrambi comunque
antepongono le orecchie all'intelletto».
«Tu», dissi, «stai parlando di quelle brave persone che tormentano e saggiano le corde
torcendole con le chiavette; e per non farla troppo lunga, lascio perdere l'immagine dei
colpi inflitti col plettro e delle accuse rivolte alle corde quando non danno suono o lo
danno troppo forte, e preciso che non sto parlando di loro, ma di quelli che poco fa ci
siamo proposti di interrogare sull'armonia.
Essi infatti si comportano come gli astronomi: in questi accordi percepiti dall'orecchio
cercano i rapporti numerici senza però risalire ai problemi, cioè non esaminano quali
numeri sono consonanti e quali no, e per quale motivo».(14) «Stai parlando di una
questione sovrumana!», esclamò.
«Utile», risposi, «alla ricerca del bello e del bene, ma inutile se perseguita in altro
modo».
“E’ logico», disse.
«Io credo», ripresi, «che anche la ricerca su tutte queste discipline da noi passate in
rassegna, se arriva a cogliere la loro reciproca comunanza e affinità e a dedurne la natura
di tale rapporto, possa dare qualche contributo al nostro scopo e non sia una fatica
inutile, altrimenti non serve a nulla».
«Lo prevedo anch'io», disse. «Ma stai parlando di un compito assai gravoso, Socrate».
«Ti riferisci al proemio», domandai, «o a quale altra parte? Non sappiamo forse che
tutto ciò è il preludio della melodia che dobbiamo imparare? Di certo non pensi che i
valenti conoscitori di queste discipline siano esperti di dialettica».
«No, per Zeus», disse, «tranne pochissimi di quelli in cui mi sono imbattuto».
«Ma allora», ripresi, «chi non è in grado di sostenere o comprendere una tesi saprà mai
qualcosa di ciò che a nostro giudizio occorre sapere?”
«No, neanche questo», rispose.
«E non è proprio questa, Glaucone», domandai, «la melodia che la dialettica esegue?
Quella melodia che, pur essendo intellegibile, può essere imitata dalla facoltà della vista,
la quale, come abbiamo detto, si sforza di guardare all'essenza degli esseri viventi, degli
astri e persino del sole. Così anche la dialettica, quando comincia a muoversi verso
l'essenza di ogni singola realtà senza l'aiuto di tutti i sensi, ma solo con la ragione, e non
rinuncia prima di aver colto con il puro intelletto il bene in sé, tocca i confini stessi
dell'intellegibile, come la vista arrivava ai limiti del mondo visibile».
«Senza dubbio», disse.
«E a questo procedimento non dai il nome di dialettica?”
«Certamente».
«La liberazione dalle catene», continuai, «la conversione dalle ombre alle immagini e
alla luce, l'ascesa dalla caverna sotterranea al sole, e qui la persistente incapacità di
guardare gli esseri viventi, le piante e la luce del sole, le loro immagini divine riflesse
nell'acqua e le ombre degli esseri reali, ma non più delle immagini proiettate da un'altra
luce analoga a quella del sole: lo studio di tutte le arti che abbiamo passato in rassegna
produce questo effetto e innalza la parte migliore dell'anima alla contemplazione della
parte migliore dell'essere, come prima elevava il più acuto dei sensi corporei alla
contemplazione dell'oggetto più luminoso nel mondo materiale e visibile».
«Accetto il ragionamento», disse, «per quanto mi sembri davvero difficile da accettare;
ma d'altro canto è anche difficile rifiutarlo.
Ad ogni modo, dato che non dobbiamo discuterne solo in questo momento, ma
dovremo ritornarci sopra più volte anche in seguito, posto che le cose stiano come
diciamo ora, torniamo alla melodia stessa e spieghiamola come abbiamo fatto per il
preludio. Dimmi dunque qual è il metodo della facoltà dialettica, in quali generi è
suddivisa e quali sono le sue vie: a quanto pare, esse dovrebbero condurre verso quella
mèta dove chi giunge troverà riposo dal cammino percorso e la fine del viaggio».
«Non sarai più in grado di seguirmi, caro Glaucone», ribattei, «anche se da parte mia la
buona volontà non mancherebbe; inoltre non vedresti più un'immagine di ciò che
diciamo, ma la verità stessa, almeno come pare a me. Se sia
o non sia effettivamente così, non vale più la pena di appurarlo, ma bisogna
dimostrare che qualcosa del genere si può vedere. O no?”
«Certamente».
«Quindi dobbiamo anche dimostrare che soltanto la facoltà dialettica può rivelare
questa visione a chi è esperto nelle discipline passate prima in rassegna, e che la cosa non
è possibile in nessun altro modo?”
«Vale la pena di appurare anche questo», rispose.
«Allora», dissi, «nessuno contraddirà le nostre affermazioni, sostenendo che per
cogliere l'essenza di ogni singola cosa esiste un altro procedimento metodico. Invece
tutte le altre arti sono rivolte alle opinioni e alle passioni umane, o ai processi di nascita e
di fabbricazione delle cose, o alla cura di ciò che si produce in natura e viene costruito
dall'uomo; e le rimanenti, cioè la geometria e le discipline affini, che come abbiamo detto
attingono un poco all'essere, vediamo che lo sognano, ma non riescono a vederlo in stato
di veglia, finché mantengono immutabili le ipotesi di cui si servono senza saperle
spiegare. Chi infatti accetta come principio ciò che non conosce, e con questo ha
intrecciato la conclusione e i passaggi intermedi della sua ricerca, avrà mai qualche
possibilità che una tale convenzione diventi scienza?”
«No mai!», rispose.
«Pertanto», aggiunsi, «soltanto il metodo dialettico procede per questa via, eliminando
le ipotesi, verso il principio stesso per confermare le proprie conclusioni, e dolcemente
trascina e solleva verso l'alto l'occhio dell'anima immerso in un fango veramente
barbarico, servendosi delle arti menzionate come di compagne e coadiutrici nella
conversione; spesso, per abitudine, le abbiamo chiamate scienze, ma necessitano di un
altro nome, più fulgido di opinione e più oscuro di scienza. Prima, in qualche punto, le
abbiamo definite riflessione... ma a mio parere non si tratta di contendere sul nome,
quando si ha di fronte un'indagine di questioni tanto importanti come le nostre».
«No di certo», disse.
«Ci basterà dunque quel nome che in qualche modo può esprimere con chiarezza lo
stato dell'anima?» (15) «Sì”.
«Allora», ripresi, «basterà continuare a chiamare la prima parte scienza, la seconda
riflessione, la terza assenso e la quarta congettura. Queste ultime due le chiameremo
opinione, le altre due intelletto; l'opinione riguarda il divenire, l'intelletto l'essere.
L'essere sta al divenire come l'intelletto sta all'opinione, e il rapporto tra intelletto e
opinione è lo stesso che intercorre tra scienza e assenso e tra raziocinio e congettura. E
lasciamo stare, Glaucone, la corrispondenza tra i concetti cui si applicano questi vocaboli
e la divisione in due parti di ciascun ambito, dell'opinabile e dell'intellegibile, per non
essere gravati da discorsi ancora più numerosi dei precedenti».
«Per quanto riesco a seguirti», ammise, «sono d'accordo con te».
«Quindi tu chiami esperto di dialettica chi sa rendere ragione dell'essenza di ogni
singola cosa? E chi non è capace di questo dirai che non ne possiede una conoscenza
intellettiva, in quanto non sa renderne conto né a se stesso né agli altri?”
«E come potrei dire diversamente?», rispose.
«Allora è così anche per il bene: un individuo che non è in grado di definire
razionalmente l'idea del bene, distinguendola da tutto il resto e passando come in
battaglia attraverso ogni genere di obiezioni, pronto a confutarle non secondo l'opinione
ma secondo la realtà, e non affronta tutte queste prove senza che la sua ragione vacilli,
non dirai che non conosce il bene in sé né alcun altro bene, ma se mai ne afferra una
qualche parvenza, l'afferra non con la scienza, ma con l'opinione, e la sua vita attuale è
un torpido sogno dal quale non si desta in questo mondo, perché prima scende nell'Ade
a dormire un sonno completo?”
«Sì, per Zeus, certo che dirò tutto questo!», esclamò.
«Ma se un giorno allevassi di fatto i tuoi figli, che ora allevi ed educhi in teoria, non
lasceresti, credo, che privi della ragione come linee irrazionali (16) governino la città
detenendo le cariche più alte».
«No di certo», disse.
«Quindi imporrai loro per legge di coltivare in ogni modo quell'educazione che li
renderà capaci di interrogare e rispondere nella più piena conformità con il metodo
scientifico?”
«Lo farò», rispose, «almeno col tuo aiuto».
«Ti sembra dunque», chiesi, «che la dialettica si trovi per noi al vertice, come un fregio
a coronamento delle altre discipline, e che nessun'altra disciplina possa a buon diritto
essere collocata più in alto, tanto che la trattazione delle discipline ha qui il suo
compimento?”
«Mi sembra di sì”, rispose.
«A questo punto», proseguii, «ti resta da decidere a chi e in che modo assegneremo
queste discipline».
“E’ chiaro», disse.
«Ti ricordi allora quali governanti abbiamo scelto per primi?”
«Come no?”
«Allora», dissi, «convinciti che sotto ogni altro aspetto bisogna scegliere quelle nature,
in quanto sono da preferirsi gli uomini più saldi e coraggiosi, e se possibile più belli
d'aspetto. Inoltre bisogna cercare persone non solo dal carattere nobile e dignitoso, ma
anche fornite di doti conformi a questo tipo di educazione».
«E quali doti determini?”
«Beato amico», risposi, «essi devono avere acutezza d'ingegno e imparare senza sforzo.
Le anime si scoraggiano molto di più negli studi difficili che negli esercizi ginnici, perché
qui la fatica le riguarda particolarmente e non è condivisa dal corpo».
«Vero», disse.
«E bisogna cercare un individuo di buona memoria, tenace e molto amante della fatica.
In caso contrario, come puoi credere che uno vorrà sottoporsi agli esercizi fisici e
applicarsi sino in fondo in uno studio di questa mole?”
«Nessuno vorrà farlo», rispose, «a meno che non abbia una disposizione naturale
perfetta».
«Pertanto», continuai, «l'errore attuale che ha attirato il discredito sulla filosofia è
dovuto al fatto che, come abbiamo detto prima, non se ne occupano persone degne: non
dovevano accostarsi ad essa figli bastardi, ma legittimi».
«In che senso?», chiese.
«Innanzitutto», risposi, «chi si accosterà ad essa non dev'essere zoppo nell'amore per la
fatica, cioè laborioso soltanto a metà. Questo accade quando uno è appassionato di
ginnastica e di caccia e pratica ogni sorta di esercizio fisico, ma non ama imparare, né
ascoltare, né fare ricerche, anzi detesta la fatica in tutte queste attività; ma è zoppo anche
chi indirizza la sua laboriosità nel senso contrario a questo».
«Quello che dici è verissimo», ammise.
«Anche in riferimento alla verità, quindi», domandai, «considereremo allo stesso modo
mutila l'anima che odia la menzogna volontaria, non la tollera in se stessa e si indigna
fortemente quando gli altri mentono, ma accetta facilmente quella involontaria e non si
irrita se viene colta in fallo di ignoranza, anzi si voltola pacificamente nell'ignoranza
come un maiale?”
«Senz'altro», rispose.
«E anche riguardo alla temperanza», aggiunsi, «al coraggio, alla magnanimità e tutti
gli altri elementi della virtù bisogna distinguere non meno attentamente il bastardo dal
legittimo. Quando un individuo o una città non sanno condurre con ogni scrupolo una
simile indagine, non si accorgono di avere a che fare in qualsiasi circostanza con persone
zoppe e bastarde, nel primo caso amici, nel secondo governanti».
“E’ proprio così”, disse.
«Pertanto noi», ripresi, «dobbiamo fare molta attenzione a tutto ciò: se faremo educare
in uno studio e un esercizio di questa importanza uomini integri nel corpo e nello spirito,
la giustizia stessa non avrà nulla da eccepire e noi salveremo la città e la costituzione,
mentre se sottoporremo a questa pratica gente di ben altra indole, otterremo risultati
esattamente opposti e copriremo la filosofia di un ridicolo ancora maggiore».
«E sarebbe una vergogna!», esclamò.
«Proprio così”, dissi. «Ma ho l'impressione che anche adesso mi stia capitando
qualcosa di ridicolo».
«Che cosa?», domandò.
«Mi sono dimenticato», risposi, «che stavamo scherzando, ho parlato con troppa foga.
Infatti, mentre parlavo, ho rivolto lo sguardo alla filosofia e mi sembra di essermi adirato
al vederla indegnamente coperta di fango; allora, quasi incollerito con i colpevoli, ho
pronunciato quelle parole con eccessiva serietà».
«No, per Zeus, almeno per un ascoltatore come me!», esclamò.
«Ma per un retore come me sì !», ribattei. «Non dimentichiamo che dapprima abbiamo
scelto degli anziani, mentre ora non ci sarà più possibile. Non si deve credere a Solone,
quando afferma che invecchiando si possono imparare molte cose;(17) al contrario è
meno facile che imparare a correre, e tutte le fatiche gravose e di un certo peso spettano
ai giovani».
“E’ inevitabile», disse.
«In conclusione», ripresi, «l'aritmetica, la geometria e tutta l'educazione propedeutica
che va impartita prima della dialettica devono essere proposte sin dall'infanzia, senza
però conferire all'insegnamento una forma costrittiva».
«E perché?”
«Perché», risposi, «l'uomo libero non deve imparare nulla con la costrizione. Le fatiche
fisiche, anche se sono affrontate per forza, non peggiorano lo stato del corpo, mentre
nessuna cognizione introdotta a forza nell'animo vi rimane».
“E’ vero», confermò.
«Quindi, carissimo», continuai, «non educare i fanciulli negli studi a forza, ma in
forma di gioco: in questo modo saprai discernere ancora meglio le propensioni naturali
di ciascuno».
«Le tue parole sono sensate», disse.
«E non ricordi», domandai, «che secondo noi i fanciulli devono essere condotti anche
in guerra come osservatori a cavallo, e se non incombe un pericolo bisogna portarli
vicino alla battaglia e far gustare loro il sangue, come ai cagnolini?”
«Mi ricordo», rispose.
«In tutte queste fatiche, studi e pericoli», dissi, «chi di volta in volta appare il più
pronto deve entrare a far parte di un gruppo scelto».
«A che età?», chiese.
«Quando hanno terminato gli esercizi ginnici obbligatori», risposi.
«Durante questo periodo, che duri due o tre anni, è impossibile fare altro, perché la
stanchezza e il sonno sono nemiche dello studio.
Del resto anche questa è una prova non trascurabile delle capacità di ognuno negli
esercizi ginnici».
«Come no?», disse.
«Dopo questo periodo», proseguii, «quelli prescelti tra i ventenni otterranno onori
maggiori degli altri, e le discipline che hanno già studiato confusamente nell'educazì one
giovanile saranno loro riproposte in una visione d'insieme, che mostri la loro affinità
reciproca e la natura dell'essere».
«Certo», ammise, «solo un'istruzione di questo genere è solida, per chi l'ha acquisita».
«Ed è anche la prova più efficace», aggiunsi, «per riconoscere la natura dialettica: solo
chi è capace di una visione d'insieme è un dialettico».
«Sono d'accordo», disse.
«Tenendo presenti queste considerazioni», ripresi, «dovrai individuare tra i giovani
prescelti coloro che più di tutti possiedono queste doti e rivelano costanza nello studio,
nella guerra e nelle altre attività stabilite per legge; e una volta che abbiano superato i
trent'anni dovrai insignirlì di onori più grandi e saggiare con la facoltà dialettica chi sia
capace di giungere con l'aiuto della verità all'essere in sé, senza ricorrere alla vista e agli
altri sensi.
E in questo è necessaria molta cautela, amico».
«E perché mai?», chiese.
«Non ti accorgi», ribattei, «di quanto sia grande il difetto attuale della dialettica?”
«Quale?», domandò.
«I dialettici», risposi, «sono in certo qual modo pieni di disordine morale».
«Certamente», assentì.
«E non credi», incalzai, «che la loro condizione sia strana e meriti la tua
commiserazione?”
«In che senso?”
«Supponiamo», dissi, «che un figlio adottivo sia allevato tra grandi ricchezze, in una
famiglia illustre e potente e in mezzo a molti adulatori, e una volta adulto si renda conto
di non essere figlio dei genitori che credeva, ma non riesca a ritrovare quelli veri: sei in
grado di prevedere come si comporterebbe con gli adulatori e con i suoi pretesi genitori
prima di sapere dell'adozione e dopo averlo saputo? O vuoi sentire la mia previsione?”
«Lo voglio, sì”, rispose.
«Ebbene», continuai, «prevedo che onorerebbe il padre, la madre e gli altri presunti
familiari più degli adulatori, sopporterebbe meno facilmente che mancassero di qualcosa,
sarebbe meno incline a farli oggetto di azioni o parole ingiuste e nelle questioni
importanti disobbedirebbe a loro meno che agli adulatori; questo nel periodo in cui non
fosse a conoscenza della verità».
“E’ logico», disse.
«Ma una volta che si fosse reso conto di come stanno le cose, prevedo che
diminuirebbe l'onore e la cura nei loro confronti a tutto vantaggio degli adulatori, ai
quali presterebbe orecchio molto più di prima, vivendo a modo loro e frequentandoli
apertamente, e non gli importerebbe nulla di quel padre e degli altri presunti familiari, a
meno che non fosse dotato di una natura straordinariamente nobile».
«Accadrebbe precisamente come dici», concordò. «Ma in che modo questo paragone si
può riferire a coloro che si occupano della dialettica?”
«Nel modo seguente. Sin dall'infanzia noi abbiamo delle opinioni sul giusto e sul bello,
che ci hanno allevati come dei genitori e alle quali obbediamo e portiamo rispetto».
«Sì, è così».
«Ma esistono anche abitudini piacevoli contrarie a queste, che adulano la nostra anima
e la trascinano verso di loro, senza però persuadere gli uomini appena un poco
equilibrati, i quali rispettano le usanze tradizionali e ad esse rimangono fedeli».
“E’ così”.
«Ebbene», proseguii, «quando a una persona del genere viene posta la domanda: "Che
cos'è il bello?", e la ragione confuta la risposta che questi ha dato per averla udita dal
legislatore, e quando una confutazione frequente e serrata lo induce a credere che ciò non
è per nulla più bello che brutto e a procedere allo stesso modo con il giusto, il bene e ciò
che teneva in maggior conto, cosa credi che farà in seguito dell'onore e dell'obbedienza a
quei valori?”
“E’ inevitabile», rispose, «che il suo onore e la sua obbedienza non siano più gli stessi».
«Quando dunque», domandai, «non riterrà questi valori degni di rispetto e familiari
come prima, e d'altra parte non riuscirà a trovare quelli veri, potrà ragionevolmente
dirigersi verso una vita diversa da quella che lo lusinga?”
«No», rispose.
«E da rispettoso della legge sembrerà che sia divenuto un trasgressore, penso».
“E’ inevitabile».
«Quindi», ripresi, «ciò che accade a chi fa questo uso della dialettica non è forse
naturale e, come ho detto prima, degno di molta indulgenza?”
«E anche di compassione!», aggiunse.
«E per non esporre i tuoi trentenni a questa compassione, non si dovrà affrontare la
dialettica con la massima cautela?”
«Certamente», rispose.
«Ma non è una grande precauzione impedire loro di gustarla finché sono giovani? Non
ti è sfuggito, credo, che i ragazzi, non appena assaggiano la dialettica, la usano come un
gioco per contraddire sempre, e imitando quelli che confutano finiscono per farlo essi
stessi, godendo come cagnolini di tirare e mordere con la parola chi di volta in volta si
trova vicino a loro».
«E provano un piacere straordinario!», esclamò.
«Pertanto, quando ne confutano molti e da molti sono confutati, ben presto cadono in
una forte sfiducia verso tutto ciò in cui credevano prima; di conseguenza sia loro stessi,
sia nel complesso tutta la filosofia, cadono in discredito presso gli altri».
«Verissimo», disse.
«Al contrario», proseguii, «l'uomo più anziano non parteciperà di una simile follia, ma
imiterà chi vuole usare la dialettica per indagare il vero piuttosto che chi vuole giocare e
contraddire per divertimento; inoltre sarà egli stesso pì u equilibrato e renderà la sua
professione più onorata anziché più disprezzabile».
«Giusto», disse.
«E anche tutto il discorso di prima non è stato forse dettato dalla precauzione che
coloro a cui sarà trasmessa la dialettica siano per natura ordinati e costanti, e che non se
ne occupi, come ora, il primo venuto privo di qualsiasi attitudine?”
«Senz'altro», rispose.
«Per assimilare la dialettica è dunque sufficiente un'applicazione costante e assidua,
che escluda ogni altra attività e corrisponda nel metodo agli esercizi fisici, ma duri il
doppio?”
«Vuoi dire sei o quattro anni?», domandò.
«Via», dissi, «facciamo cinque. Dopo questo periodo dovrai far ridiscendere i tuoi
discepoli in quella caverna e obbligarli a esercitare i comandi militari e tutte le cariche
detenute dai giovani, affinché non siano inferiori agli altri per esperienza; e anche in
questo campo bisogna metterli alla prova per vedere se, trascinati in ogni direzione,
rimarranno fermi o si lasceranno smuovere un poco».
«Quanto tempo assegni a queste attività?», chiese.
«Quindici anni», risposi. «Arrivati a cinquant'anni, coloro che si sono mantenuti integri
e si sono particolarmente distinti in tutte le attività pratiche e in tutte le scienze dovranno
essere condotti alla perfezione e costretti a volgere verso l'alto il lume dell'anima e a
guardare l'essere in sé che dà luce a ogni cosa; e dopo aver visto il bene in sé, dovranno
usarlo come modello per ordinare, ciascuno a turno, la città, i privati cittadini e se stessi
per il resto della loro vita, dedicando la maggior parte del tempo alla filosofia. E quando
arriva il loro turno, dovranno impegnarsi nel travaglio della politica e del governo della
città pensando di compiere un'opera non bella, ma necessaria; così, dopo aver educato
altri concittadini e averli lasciati al loro posto come guardiani, andranno ad abitare nelle
isole dei beati. Allora la città dovrà consacrare loro monumenti e sacrifici pubblici come a
esseri sovrumani, se la Pizia darà responso favorevole, altrimenti come a uomini beati e
divini».
«Hai reso i governanti bellissimi, Socrate, come uno scultore di statue!», esclamò.
«E anche le governanti, Glaucone!”, ripresi. «Non credere che le mie parole valgano
più per gli uomini che per le donne, almeno per quante di loro possiedono le doti
naturali indispensabili».
“E’ giusto», disse, «se davvero parteciperanno in uguale misura a tutte le attività degli
uomini, come abbiamo spiegato».
«Ebbene», proseguii, «non convenite che riguardo alla città e alla costituzione non
abbiamo espresso semplici desideri, ma proposte fattibili, per quanto la loro
realizzazione sia difficile e possa avvenire soltanto nel modo che abbiamo detto, cioè
quando i veri filosofi, molti o uno solo, (18) prenderanno il potere nella città e
disprezzeranno gli onori attuali, ritenendoli miseri e di nessun valore, e al contrario
avranno la massima considerazione della rettitudine e degli onori che ne derivano e
reputeranno la giustizia il valore più alto e più necessario, mettendosi al suo servizio per
darle incremento e ordinare la loro città?”
«In che modo?», domandò.
«Manderanno in campagna», risposi, «tutti i cittadini al di sopra dei dieci anni,
prenderanno in cura i loro figli, ancora immuni dalle attuali abitudini dei loro genitori, e
li educheranno ai loro costumi e alle loro leggi, che saranno rispondenti a quanto
abbiamo esposto prima. Così la costituzione che abbiamo delineato entrerà in vigore nel
modo più rapido e facile, la città sarà prospera e il popolo che vedrà realizzarsi il nostro
progetto ne trarrà il massimo giovamento».
«Certamente», disse. «E mi sembra che tu, Socrate, abbia spiegato bene come potrebbe
realizzarsi, se mai ciò accadesse».
«Non abbiamo parlato abbastanza», chiesi ancora, «di questa città e dell'uomo
conforme ad essa? è chiaro quali dovranno essere, a nostro giudizio, le sue
caratteristiche».
«Sì, è chiaro», rispose, «e come vuol far intendere la tua domanda, mi sembra che la
questione sia conclusa».

NOTE:

1) Il mito della caverna, che rappresenta i quattro gradi della conoscenza, è strettamente legato alla distinzione tra mondo sensibile e mondo intellegibile tracciata negli ultimi capitoli del libro 6 attraverso l'immagine dei due segmenti e delle quattro parti, a ciascuna delle quali corrisponde un diverso livello e strumento di conoscenza; questo denso discorso concettuale trova qui la sua esplicitazione e il suo coronamento.

2) Omero, Odyssea, libro 11, versi 439-490; il passo, citato più ampiamente a libro 3, 386c, viene qui adattato al contesto e risulta assai appropriato perché in queste parole, che Achille rivolge a Odisseo durante la sua discesa agli Inferi, il mondo delle ombre, cioè l'Ade, viene contrapposto al mondo dei vivi.

3) Altra allusione al destino di Socrate, che pagò con la vita il suo tentativo di condurre gli uomini
dall'oscurità alla luce della filosofia e del bene.

4) Questa teoria della trasmissione del sapere, riferita ai sofisti, è contestata anche nel Simposio (175d-e).

5) La filosofia e la politica.

6) L'immagine è derivata da un gioco di ragazzi, citato anche nel Fedro (241b), nel quale si usava un coccio bianco da una parte e nero dall'altra. I giocatori erano divisi in due squadre, ciascuna delle quali sceglieva uno dei due colori; il coccio veniva poi gettato in aria al grido di "nùs e eméra", ('notte o giorno!') e a seconda di come cadeva una squadra fuggiva e l'altra inseguiva.

7) I Greci distinguevano tra l'aritmetica, puramente teorica, e l'arte del calcolo, volta alle applicazioni pratiche.

8) Palamede, eroe greco che gareggiava con Ulisse in astuzia e ingegno, era considerato l'inventore dell'aritmetica, dell'astronomia e dell'alfabeto. Platone ironizza sulla ripetitività di certi soggetti tragici, dato che la figura di Palamede era protagonista di molte tragedie, ma forse anche su un'opera di Gorgia a lui dedicata.

9) Per esempio la pioggia e le singole gocce, il bosco e gli alberi che lo costituiscono.

10) Platone concepisce i numeri in sé come entità astratte, a metà tra le idee e gli oggetti sensibili.

11) Si tratta della stereometria, che fu studiata a fondo da Euclide e dalla scuola platonica. Uno dei
maggiori esperti greci di stereometria fu quel Teeteto cui Platone dedicò il dialogo omonimo.

12) Gli astri, ornamenti del cielo, appartengono al mondo visibile e quindi sono soltanto una copia dei veri corpi celesti, che risiedono nel mondo delle idee.

13) Il nome del mitico costruttore del Labirinto di Creta, dove il re Minosse teneva nascosto il
Minotauro, offre lo spunto per un gioco di parole su "daídalos", che come aggettivo significa
'artisticamente lavorato'.

14) L'interesse di Platone per l'armonia è esclusivamente teorico e prescinde dalle sue applicazioni
pratiche nel campo della musica.

15) La traduzione segue la congettura di Burnet, poiché la corruttela del testo è insanabile.

16) I matematici greci rappresentavano le grandezze irrazionali con un sistema di linee irrazionali;
questa sembra la migliore interpretazione dell'immagine, più convincente di quella che intende "grammé" nel senso di "parola scritta".

17) Parafrasi di Solone, frammento 22, Gentili-Prato.

18) Platone non fa una distinzione precisa tra monarchia e aristocrazia, purché il potere sia in mano ai filosofi.






Nessun commento:

Posta un commento