Mps: nulla è cambiato a 10 anni dall’affaire Antonveneta
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Data: 11
dicembre 2017 19:12
Il rinnovamento e la trasparenza rimangono una pia illusione
di
Marco Sbarra
SIENA. Sono
trascorsi pochi giorni dal decimo anniversario di quello che era
stato presentato come l’affare del secolo prima di rivelarsi
invece“la madre di tutte le distruzioni di
valore nel settore bancario”, metafora
illuminante regalataci da Nicola
Scocca, l’ex direttore finanziario
silurato dalla Fondazione Mps nel
2008. L’8 novembre 2007 il CdA di Rocca Salimbeni ratificò
tra scene di entusiasmo l’acquisizione di Banca
Antonveneta, il “dono” che, è il caso di
dire, infiniti lutti addusse ai senesi.
L’evento
è passato sotto silenzio, quasi sia stato considerato un effetto
collaterale della tragedia del Monte dei
Paschi e non la causa. Lo
stesso Barbagallo,
Capo della Vigilanza di BanKitalia, ha sminuito in questi giorni la
sua rilevanza – forse non del tutto disinteressatamente –
preferendo focalizzare la sua attenzione sugli “effetti
della congiuntura” e
sui “comportamenti gravi e fraudolenti
posti in essere sin dal 2008 dai precedenti esponenti di vertice”.
Interroghiamoci
allora su come funzionò il management di primo livello di Rocca
Salimbeni alle prese con l’integrazione di Antonveneta e con quali
professionalità, indipendenza e correttezza abbia operato.
Pochi
giorni dopo l’acquisizione Mussari e Vigni incaricarono Marco
Morelli, all’epoca Vice Direttore
Generale, di organizzare e dirigere un gruppo di lavoro interno
incaricato di individuare le fonti di finanziamento dell’acquisizione
di Antonveneta.
Il
candidato naturale per quel compito sarebbe stato il CFO Pirondini,
ma la scelta cadde su Morelli poichè il suo superiore non conosceva
l’inglese. Questo aneddoto davvero curioso è raccontato dallo
stesso Morelli.
Pirondini
offre un’altra spiegazione: fu indicato Morelli perché proveniva
da una banca d’affari ed aveva esperienza di capital markets. A
quale banca si riferisse lo vedremo nella seconda parte.
Del
gruppo di lavoro diretto dall’attuale A.D. faceva parte anche David
Rossi. L’allora Responsabile dell’Area
Comunicazione era quindi perfettamente al corrente di tutti i
risvolti dell’operazione, tanto è vero che lo stesso, in una
drammatica e mail indirizzata due giorni prima di morire a Fabrizio
Viola – pubblicata dal Fatto
Quotidiano – scriveva di voler incontrare i magistrati,
poiché “Avendo lavorato con tutti,
sono perfettamente in grado di ricostruire gli scenari, se è quello
che cercano”.
E’
davvero difficile pensare che l’affaire Antonveneta non
c’entri nulla con la morte di Rossi.
Un
primo problema da chiarire riguarda l’identificazione del CFO del
Monte nel periodo che va dal 28 agosto 2008 al 20 ottobre
2008. Daniele Pirondini dichiarò
ai magistrati che cessò dal suo incarico di CFO nell’agosto 2008,
mentre risulta dai documenti della banca che Morelli fu insediato in
quella carica solo il 20 ottobre di quell’anno. Gli stessi
riportano che a Pirondini rimase la carica di Dirigente preposto alla
redazione dei documenti contabili societari.
Se
i ricordi di Pirondini risultano esatti viene da chiedersi chi svolse
la funzione di CFO in quel lasso di tempo, poiché ufficialmente
dopo Pirondini venne
nominato Morelli.
Questo particolare non è privo di rivelanza, poiché nel Monte dei
Paschi di Siena il delicato compito di intrattenere i rapporti con
Banca d’Italia – ricordo che Mussari, Vigni e Baldassarri sono
stati condannati in primo grado a Siena per il reato di ostacolo alle
funzioni di Vigilanza poi assolti in appello a Firenze – è
demandato ad una struttura della Direzione CFO che fa capo al
Responsabile.
Si
dà il caso che la lettera di contestazioni del contratto di
finanziamento Fresh stipulato fra Mps e JP
Morgan fu inviata da Bankit il 23
settembre del 2008 e riscontrata dal Monte con una missiva firmata
da Vigni il 3
ottobre seguente, quindi proprio nel periodo dell’apparente
interregno del Direttore finanziario. Chi operava in quel periodo
come CFO ne aveva i poteri?
Perché Pirondini dichiara
ai magistrati di aver continuato a curare fino a dicembre 2008 – ma
solo come collaboratore – l’operazione
Fresh e di aver provveduto, in particolare dopo la lettera del 23
settembre 2008 di Bankit, a curare i rapporti con la Vigilanza.
Ci
si chiede in base a quali competenze abbia firmato il 1° ottobre
2008 un’indemnity – che poteva risultare esiziale per il Monte –
a favore di JP Morgan che
gli è costata il rinvio a giudizio nel processo Mps di Milano, tanto
più che ammette di non ricordarsi nemmeno di averla firmata.
Altra
incongruenza la si rileva nel mancato riscontro di tracce documentali
del passaggio tra gli uffici apicali del Monte di atti della massima
importanza e nell’assenza di verbali delle presenze agli incontri
di vertice, cosicché è quasi impossibile venire a sapere con
certezza chi fosse venuto a conoscenza di atti e fatti determinanti.
Mi
riferisco in particolare all’indemnity del 15 aprile del 2008
rilasciata da Marco Morelli a
JP Morgan il giorno prima del regolamento del Fresh.
Sembra
incredibile ma non sussisterebbe alcuna prova tangibile che quel
documento che esponeva la banca ad un rischio eventuale di un
miliardo di euro sia transitato da Morelli al suo superiore diretto
Vigni. La cosa non è indifferente in quanto quest’ultimo il 3
ottobre 2008 firmò la risposta a BanKit senza far cenno alcuno a
quella garanzia.
Lo
stesso problema si ripresenta per un’altra indemnity firmata, con
la preventiva approvazione di Morelli,
da Massimo Molinari Responsabile
della Tesoreria il 10 marzo 2009 a favore di Bank
of New York, incaricata da JP Morgan di
collocare i bond Fresh, per risolvere la contrarietà di alcuni
obbligazionisti ad approvare le modifiche imposte da Bankitalia al
contratto.
Ma
pure per la terza indemnity rilasciata il 1° ottobre 2008 a favore
di JP Morgan non
pare esserci la certezza che Pirondini,
suo firmatario, abbia informato Vigni.
Mi
domando se nella Direzione Generale esistesse un protocollo, o se non
regnasse piuttosto una disorganizzazione deleteria dovuta
all’impossibilità di portare a compimento, per di più in tempi
ristretti, una missione impossibile come quella dell’integrazione
di Antonveneta.
Per
valutare la professionalità dei vertici credo sia utile leggere
queste due citazioni. Una è di Giuseppe
Mussari in qualità di Presidente del
Monte dei Paschi di Siena: “Questo non
è il mio lavoro, e non voglio confonderlo con la
professione: tornerò a far
l’avvocato, che poi è quello che so fare” .
L’altra
di Antonio Vigni,
ex Direttore Generale: “Fò il coltivatore
diretto, c’ho un’aziendina”. Il
novello Cincinnato era uomo delle Istituzioni e secondo lui per un
montepaschino era normale informare delle decisioni della banca
la Provincia o
il Comune di Siena in
quanto questi erano considerati Istituti di tutti.
Vigni
ammette di avere scarse conoscenze in finanza e con
umiltà davvero ammirevole riconosce che di quella branca ne sapeva
meno di Mussari, il che è tutto dire.
I
due personaggi avevano caratteri diametralmente opposti, ma c’era
una caratteristica che li univa: entrambi erano made in Pci/Pd.
La
poca dimestichezza con la professione svolta dei vertici
del Monte però
non può spiegare da sola il disastro Antonveneta. Si ha
l’impressione che Mussari – chissà
se per sua sua volontà o per input superiori – si sentisse
investito di una sacra missione da portare a termine con qualsiasi
mezzo e a qualsiasi prezzo. Bisogna però riconoscere che nessuno dei
vertici se l’è sentita di opporsi in prima persona a
quell’acquisizione, nemmeno Morelli, il quale anzi
ammise di avere apprezzato l’iniziativa e di non aver espresso
opinioni sulla congruità del prezzo.
Per
rendersi conto della totale sconsideratezza dell’affare basta
andare alle “clausole vessatorie” presenti nel contratto di
acquisizione di Antoneveneta: 1) No due diligence 2) No
clausole di salvaguardia 3) Pagamento esclusivamente per cassa 4)
Pagamento interessi dalla stipula del contratto al closing per circa
234 milioni di euro.
In
più, chissà perché non fu effettuato l’agevole controllo
preventivo sulla sussistenza di linee di finanziamento concesse ad
Antonveneta dalla Capogruppo ABN Ambro, rivelatesi in seguito per un
totale di 7,9 miliardi di euro.
Viene
quasi da pensare che quel salto nel buio sia stato l’atto
conclusivo di un disegno strategico più che un gesto di incoscienza.
1
– Continua
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