SECONDO
POTERE – LO SPACCIO DI DROGA
Tratto parzialmente da “Miseria
umana della pubblicità”.
A cura
del Gruppo MARCUSE. Con alcune aggiunte e considerazioni.
LA
PUBBLICITA’ E LA
LIBERTA’ DI ESPRESSIONE
Siamo sottoposti a un bombardamento quotidiano di migliaia di messaggi pubblicitari
che hanno ridotto lo spazio pubblico a un catalogo pubblicitario. Il budget
mondiale del settore supera ormai i 500 miliardi di euro.
Motivo : la crescita infinita è
essenziale per l’economia capitalista (il che teoricamente sarebbe un bene ….., il guaio
è che siamo immersi in un sistema che è finito). Compito
strategico della pubblicità è trasformare la propaganda industriale in voglia
di consumare e così consentire l’attuale bulimia di merci. Fino a invadere - e stravolgere - alcune sfere vitali della società come
i media, la salute e la stessa democrazia, («l’atto elettorale è un atto di
consumo come un altro», affermano i pubblicitari). Fino a quella devastazione
della società e della natura che è sotto gli occhi di tutti.
Il sistema pubblicitario nella
società industriale.
La
pubblicità, arma del marketing, è l’arte di vendere qualsiasi cosa a chiunque e
con qualsiasi mezzo. Per la precisione, è il marketing nella sua
dimensione comunicazionale. Passando attraverso la scappatoia dei media, essa costituisce l’archetipo della «comunicazione». La critica alla
pubblicità si estende conseguentemente quindi alla critica contro il marketing
e contro la comunicazione, contro il sistema capitalistico nel suo insieme : questi flagelli compongono tutti insieme il sistema
pubblicitario. Ma questo sistema è stato generato dal capitalismo industriale,
che finanzia i media di massa di cui orienta il contenuto. Il problema perciò non
si riduce all’abbrutimento pubblicitario, include anche la disinformazione mediatica e la devastazione industriale. Non bisogna illudersi: la pubblicità è solo la punta dell’iceberg del sistema pubblicitario. E se siamo contro tale sistema e tale società, è perché il nostro
attuale stile di vita sta uccidendo il mondo.
L’effetto principale della pubblicità è la
propagazione del consumismo. Basato sull’iperconsumo, questo stile di vita
riposa sul produttivismo, e dunque implica lo sfruttamento
vieppiù crescente delle persone e delle risorse naturali. Tutto ciò che
consumiamo comporta meno risorse disponibili (la Terra è un sistema finito) e
più scarti, più nocività e più lavoro depauperante. Il consumismo porta così
alla devastazione del mondo, alla sua trasformazione in deserto materiale e
spirituale: un ambiente dove sarà sempre più difficile vivere e sopravvivere in
modo umano. In questo deserto prospera la miseria fisica e psichica, sociale e
morale. Gli immaginari tendono ad atrofizzarsi, le relazioni sono disumanizzate, la solidarietà si decompone, le competenze personali
diminuiscono, l’autonomia sparisce, i corpi e le menti vengono standardizzati.
La miseria umana della pubblicità è, dunque
questa vita impoverita che esalta una pubblicità onnipresente. «La pubblicità
serve anche a rilanciare i consumi». I pubblicitari stessi non negano che ciò
implica una buona parte di manipolazione. E cosa significa manipolare qualcuno, se non fargli fare qualcosa che
non avrebbe mai fatto spontaneamente, come rinnovare inutilmente merce
futile e nociva? Come diceva Machiavelli, il fine giustifica i mezzi. quindi tollerabile questa manipolazione : «Rilanciare i consumi e far
funzionare l’economia, il che, a priori, non è condannabile».
Fintanto che la materia consumata può essere riciclata o meglio
reintegrata. Le tre leggi della termodinamica dicono che in
un sistema (o nell’universo) nulla si crea e nulla si distrugge, tutto si
modifica, con guadagno o perdita di energia. Vero, ma non vorrei che tutto si
modificasse in biossido di carbonio, ossido di ferro, in definitiva merda (a
qualunque elemento chimico la vogliamo associare), anche a vantaggio di
guadagno di energia.
Non ci sarebbe più vita per nessuno nella merda (in
senso metaforico).
Se si accetta il dogma fondante
dell’economicismo, pregiudizio che quasi nessuno contesta malgrado i suoi effetti disastrosi sulle nostre vite, allora la pubblicità
è effettivamente indispensabile, tanto che diventa difficile metterla in
discussione. Se invece la volontà di produrre si giustifica con il fatto che ne
dipende la sopravvivenza materiale, in società come le nostre, dove regnano spreco e
sovrapproduzione (perché distruggere il surplus agricolo per mantenere i
prezzi, non si potrebbe regalarli alle onlus assistenziali?, perché pagare gli agricoltori per lasciare i raccolti sui campi?), si tratta di un
presupposto irragionevole, irresponsabile e pericoloso.
Dobbiamo iniziare a renderci conto che la
crescita, divenuta fine a se stessa, invece di corrispondere ai nostri reali
bisogni è prima di tutto crescita di nocività e di diseguaglianza.
Ormai siamo
al punto evidente che se guadagno qualcosa di più io rispetto al necessario è
perché lo sto togliendo dalla catasta dove dovrebbe andarlo a prelevare un
altro che non ne avrà più l’opportunità.
Non è
un’affermazione post-comunista ma una drammatica constatazione della realtà.
La pubblicità è indissolubilmente legata alla
devastazione del mondo (non esagero), di cui è uno dei motori. Essa vi
contribuisce doppiamente: spingendo l’iperconsumo di merce industriale (perché comprare una
nuova automobile ogni due anni?,anche se avesse percorso trecentomila Km basterebbe cambiare o
revisionare il motore e qualche altro elemento della catena cinematica,
paradossalmente proprio la pubblicità di molte industrie automobilistiche
garantisce ed assicura la durata del veicolo fino a cinque anni!!), favorisce lo sviluppo
di un’economia devastatrice (i consumatori oramai trascorrono le domeniche
negli ipercentri commerciali invece di fare una bella passeggiata nel bosco a cogliere
i frutti selvatici, miracolosamente ce ne sono ancora); e dissimulandone le
conseguenze, frena una presa di coscienza ogni giorno più urgente se si vuole evitare il peggio; ed
il peggio è purtroppo molto vicino e molto grave.
LE RELAZIONI
PERICOLOSE
La storia insegna che ciò che può spezzare
vecchie catene spesso forgia nuove schiavitù. L’industria avrebbe potuto
risparmiarci i lavori più penosi, evidenti miglioramento obiettivamente ci sono stati, ma di fatto ci ha asservito a un lavoro senza tregua (quanto ore a
settimana lavorate voi?). La pubblicità ha giocato un ruolo di
catalizzatore in questo ribaltamento: inoculandoci l’incessante voglia di
consumare, ci
ha trasformati in servi di quella macchina che si supponeva fosse al nostro servizio.
Conosco
gente che si è comprata una nuova macchina fotografica digitale perché è uscito
un nuovo modello da 5000 megapixel, quando la vecchia ne aveva 3600, ma una foto sopra i 2000 megapixel è perfetta come
definizione ed indistinguibile ad occhio nudo da una da 5000.
La propaganda industriale avrebbe potuto
legittimamente limitarsi alle merci classiche (con qualche limitazione) e rispettare
l’indipendenza di almeno tre delle sfere fondamentali e vitali
che simboleggiano ciò che di positivo si è inventata la modernità: il giornalismo, la
democrazia, la medicina. Non meraviglia che essa ne abbia pervertito pericolosamente le logiche interne allorché è
riuscita a metterle al servizio dell’accumulazione del capitale. Grazie alla
sua azione, i media sono diventati macchine per far spendere,
invece di diffondere il libero pensiero. Con l’avvento del mondo della
comunicazione, essa ha spoliticizzato la politica e svuotato la democrazia della sua
sostanza. Infine, impadronendosi della farmacopea, ha trasformato la
medicina in ……. un sistema patogeno.
Piccolo
flash ecco può fare la comunicazione al servizio delle multinazionali
…….. ricordate ultimamente :
a) la mucca pazza? (in Italia 3 morti, se mi
ricordo bene, in circa dieci anni, in Europa stesso periodo circa 85) in
compenso fattorie ed aziende agricole andate in malora a migliaia, disoccupati,
centinaia di migliaia di mucche abbattute, contributi ancora da vedere per gran
parte degli agricoltori);
b) la pecora dalla lingua
blu? (nessun morto
ma per il resto come sopra);
c) il maiale appestato? (nessun morto
ufficiale, ma per il resto come sopra);
d) le cicogne vampiro, e la
gallina killer? (in Italia
nessun morto, nel mondo meno di un centinaio in circa un anno;
e) Etc., etc..
Per un
rapido confronto sulla reale dimensione del fenomeno bastino questi dati
riguardanti l’Italia:
1) 35.000
morti l’anno di media per conseguenze di abuso d’alcool;
2) 80.000
morti l’anno per conseguenze dirette o indirette dovute al fumo;
3) 85.000 morti l’anno a causa di tumori, anche a
causa del fumo;
4) 11.000
morti l’anno a causa di incidenti
stradali.
5) Tralascio
le tante altre cause di decesso che riguarderebbero argomentazioni più
complesse.
Due
considerazioni.
Prima considerazione
A) Perché
creare panico fra la gente (sempre i Consumatori) per delle idiozie come la
mucca pazza e similaria, che
pure se fondata su motivazioni scientifiche in ogni caso ha peso assolutamente
irrilevante nei confronti della Salute Pubblica?;
B) A chi
conviene una simile campagna pubblicitaria – informativa - intimidatoria sulle potenziali
catastrofiche conseguenze di una pandemia?.
Seconda
considerazione
Al contrario
perché mai nessuna campagna informativa – pubblicitaria – giornalistica, serena
e divulgativa, è mai stata fatta a tamburbattente inerenti le
patologie di massa come quelle appena sopra citate???
E qui ce ne
sarebbe davvero bisogno perché il costo economico e sociale di queste vere
piaghe d’Egitto è enorme e diminuirne la dimensione e la quantità sarebbe un
gran sollievo per i malcapitati, i malati ed un gran guadagno per tutti noi
cittadini – consumatori – contribuenti dello Stato .
La risposta
ci riporta sempre al PRIMO POTERE (il potere finanziario) di cui vi ho inviato ampia documentazione nella
precedente newsletter.
L’indipendenza illusoria dei
media
Prima della metà del XIX secolo, i giornali venivano finanziati dai loro lettori e
redattori, in quanto non si trattava di ricavarne un profitto, ma di formare un
contropotere di fronte all’onnipotenza monarchica. Nel 1836 Émile de Girardin inaugura la pratica che fonda la stampa di
massa moderna: introduce degli annunci a pagamento alla fine del giornale allo
scopo di diminuirne il prezzo di vendita, quindi di accedere a un numero più ampio di lettori, quindi di attrarre più pubblicità
e così via iperbolicamente. Questa pratica si è generalizzata e
oggi la maggior parte dei giornali dipende per il 50% dalla pubblicità, mentre
alcuni vivono esclusivamente di pubblicità, come i giornali «gratuiti»
(Metro – Leggo – City) la cui funzione è esclusivamente di diffonderla presso
un pubblico più vasto.
Riflessione
Ma non
esistono nel Codice Penale gli articoli di associazione a delinquere; di falsa comunicazione a mezzo stampa; di
abuso della credulità popolare?, ed altre tipologie di reato previste dal
Codice penale, che cosa fanno le varie cosiddette Authority create a difesa del cittadino – consumatore??
Ovviamente, i pubblicitari si felicitano per
questa «associazione a scopo di lucro» in cui la pubblicità è il «partner
dominante », in grado di «imporre il proprio linguaggio» e «parassitizzare» lo spazio dei giornali, ormai ridotti al ruolo di
supporti pubblicitari. La simbiosi è ancora più marcata
nelle riviste, trasformate in negozi virtuali.
La convergenza tra pubblicità e informazione è avvenuta mediante un doppio movimento. Da un lato, i pubblicitari
mantengono la confusione dei generi imitando lo stile e l’impostazione degli
articoli giornalistici. Per lottare contro tale pubblicità clandestina (stretto
equivalente della propaganda nera che opera falsificando le fonti), la legge ha
imposto che le pubblicità vengano presentate come tali; tuttavia esse
continuano a camuffarsi nella forma di «dossier pubblicitari», di «supplementi
omaggio», di «tavole rotonde», ecc..
Il
giornalismo diviene così un business come tutti gli altri, tanto che alcune
redazioni si rivolgono ai consulenti di marketing per determinare le aspettative dei «consumatori d’informazione». Inevitabilmente la politica viene considerata come meno fondamentale rispetto alle inchieste sul consumo
e su altri «temi sociali» trasversali. Siamo entrati nell’era dell’infotainment, l’info-divertimento: l’informazione deve divertire (in
inglese entertainment, da non confondere con infottement alla napoletana [che sarebbe più
afferente]) piuttosto che istruire. Queste tendenze sono particolarmente
marcate nella televisione.Gli inserzionisti influenzano anche i contenuti, rifiutando che i loro
spot siano abbinati a trasmissioni che suscitano emozioni negative, nel timore
che queste ultime facciano impallidire i loro prodotti, ricordate quante volte
alcuni spot televisivi sono stati ritirati dalla programmazione quando
l’attore – immagine è rimasto coinvolto in affari giudiziari?.
Quanto alla carta stampata, i protagonisti
sono i consulenti pubblicitari (cinghie di trasmissione tra padronato e
redazioni) e, ancor più, le agenzie di vendita di spazi pubblicitari. Grazie ai
«piani mediatici» (con i quali determinano i veicoli pubblicitari appropriati
per raggiungere l’obiettivo prefissato, organizzando poi il bombardamento),
sono infatti loro che possono influenzare e ricattare le redazioni,
minacciando di tagliare i viveri.
Fieri di ricevere finanziamenti per la loro
missione, che è quella di analizzare e criticare in piena autonomia, certi
giornalisti rivendicano il legame che li collega alle grandi imprese. «La pubblicità,
strombazza il direttore di ‘Le Monde’, è garante dell’indipendenza del giornale». Precisiamolo: di fronte ai
poteri politici. Ma tale finanziamento comporta un’altra dipendenza: quella dalle potenze finanziario – economiche.
E se parrebbe logico, nel caso di un giornale
finanziato dallo Stato, che il giornalista si trattenesse dallo sputare nel
piatto in cui mangia, perché le cose dovrebbero andare diversamente quando il piatto lo fornisce il capitale?
Circa mezzo secolo fa, il fondatore di «Le
Monde» faceva questa dichiarazione: «Mi sembra pericoloso che la vita del
giornale sia assicurata per una porzione eccessiva dalla pubblicità, perché ciò
lo pone alla mercé di un ricatto». Il finanziamento da
parte dei soli lettori è infatti l’unica garanzia
di una completa indipendenza redazionale. È appunto per questa ragione che un
giornale come «Le Canard enchaîné» rifiuta la manna
pubblicitaria; non meraviglia dunque che sia uno dei rarissimi giornali che informa il
pubblico sull’influenza nociva di quest’ultima all’interno dei media.
Rappresaglie pubblicitarie (campagne annullate
in seguito ad articoli troppo critici), boicottaggio dei nuovi titoli che si
smarcano dal «pensiero unico» al servizio del padronato, giornalisti licenziati
o messi alle corde dalle agenzie pubblicitarie, «limatura» o mutilazione dei
loro articoli, che possono anche essere corretti o direttamente cestinati
queste ed altre tecniche più dolci e sornione: richiami di tipo amicale, intimidazioni, connivenze, relazioni privilegiate con i vertici.
Insieme al bastone, quelli che vogliono crearsi un «terreno mediatico favorevole » sanno anche agitare la carota della «lubrificazione
pubblicitaria»; una volta interiorizzate, queste pressioni portano anche all’autocensura.
La dipendenza della maggior parte dei giornali
nei confronti degli inserzionisti è ancora più problematica per il fatto che
sono le marche, e non i politici, a essere oggi
giuridicamente intoccabili. Le grandi imprese (vedi PRIMO POTERE) sono infatti le potenze politiche più nocive in assoluto, nel senso che sono
loro a trasformare il mondo. Le decisioni che modificano o rischiano di
modificare in profondità la vita quotidiana (OGM, nanotecnologie, flessibilità, ecc.) non vengono prese in seno ad assemblee nazionali, ma a monte, vale a
dire nei consigli di amministrazione e nei laboratori tecnico-scientifici; alla
“politica” il compito di indorare la pillola.
Beninteso, ci sono notevoli differenze tra i media e perciò diversi gradi di vassallaggio, ma guardiamoci bene dal
credere che la pubblicità sopraggiunga a pervertirli dall’esterno.
L’interconnessione è totale: i media hanno bisogno della manna
pubblicitaria, quest’ultima ha bisogno del canale mediatico per rivolgersi alle masse. Ma soprattutto c’è una profonda
analogia nel loro modo, pur problematico, di trasmettere i
propri messaggi a masse di destinatari anonimi e atomizzati. E in effetti, più siamo connessi ai media in modo verticale e impersonale, meno siamo legati tra noi in modo
orizzontale e personale (ESPANDERE LA COMUNICAZIONE ORIZZONTALE, PIAZZE REALI O
VIRTUALI [INTERNET]).
Un’atomizzazione che accresce la nostra
dipendenza e la nostra vulnerabilità nei confronti dei mass media, che sono di fatto a doppio taglio: più costituiscono formidabili mezzi
d’informazione «democratica» (accessibili a una larga audience), più favoriscono
la concentrazione oligarchica della parola pubblica, conferendo un immenso
potere di disinformazione a coloro che la detengono.
Offrendo «pane e giochi circensi», gli imperi mediatico – industriali
come
minimo alterano i poteri democratici. Il verme è nella mela. Se la pubblicità dirotta l’informazione, bisogna anche capire, le
insufficienze dell’informazione stessa: Ciò che la democrazia esige, è un
dibattito pubblico vigoroso primariamente orizzontale, non pubblicità. Certo, essa ha anche
bisogno di informazione, ma il tipo di informazione di
cui ha bisogno può essere prodotto solo attraverso il dibattito. Non sappiamo
quali cose abbiamo bisogno di sapere finché non abbiamo posto le domande
giuste. Quando ci impegniamo in discussioni che catturano
interamente la nostra attenzione e la focalizzano, ci trasformiamo in avidi
ricercatori d’informazione pertinente. Altrimenti assorbiamo
indiscriminatamente l’informazione, ammesso che lo facciamo.
La comunicazione all’assalto
della democrazia.
Siamo giunti alla questione politica, e qui
anche la pubblicità ha aperto dei varchi. La distinzione che, malgrado l’identità dei loro metodi, sussisteva tra pubblicità e propaganda
si è andata sbiadendo. Due cose le differenziavano: innanzi tutto il loro
ambito di applicazione (commercio/politica); poi
il fatto che la pubblicità costituiva una professione autonoma (in quanto le
imprese affidavano la loro pubblicità ad agenzie esterne), mentre la propaganda
veniva fatta dai politici e dai militanti stessi. Al giorno d’oggi, i pubblicitari fanno «marketing politico» o «elettorale»
e s’incaricano della propaganda dei partiti. La confusione delle categorie è
giunta a un punto tale che i messaggi di propaganda
politica inseriti a pagamento sono talvolta preceduti dalla menzione
«pubblicità», mentre quelli della propaganda commerciale lo sono
dall’indicazione «comunicato», normalmente riservata alle istituzioni
pubbliche.
Negli anni Ottanta i pubblicitari si
compiacevano nel constatare che «la politica è entrata in pubblicità e
viceversa». Le prospettive di arricchimento per la vita civica appaiono
esaltanti: «In
una società fondata sul consumo di massa quasi obbligatorio …. tutto si vende, e quasi sempre per ragioni molto lontane da quelle che sono
le qualità intrinseche: dall’uomo politico alla saponetta...». Per i nostri strilloni
della democrazia adulterata, «l’atto elettorale è un atto di consumo come un altro».La comunicazione è discreta, ma si tratta
sempre di «influenzare le attitudini e i comportamenti dei diversi tipi di
pubblico». Jean-Pierre
Raffarin, ex pubblicitario divenuto primo ministro, incarna questa convinzione: tutto sarà sistemato d’ora in avanti
a colpi di comunicazione, modalità in grado di «gestire» i conflitti sociali,
di render possibile il «management» dell’opinione pubblica ricorrendo alle
regole pubblicitarie: per «vendere un’idea» bisogna a) esprimere una
promessa e una soltanto, che sia b)
confacente al target, c) semplice, d) credibile, e) durevole, declinabile, f)
opportunista. I comunicatori di Bush padre cominciarono anche ad applicare la neolingua, così gli
«interventi chirurgici» rendevano i bombardamenti più accettabili, anche se in
realtà non erano molto meno mortiferi. Sottili strategie di marketing politico
per vendere la guerra a un’opinione pubblica reticente.
La prima cosa di cui ci si deve
riappropriare è il senso delle parole. I governi hanno sempre
fatto propaganda:
in Francia ed in Italia, prima della seconda guerra mondiale, c’era un
ministero che portava questo nome. Il termine è in seguito divenuto
peggiorativo, e non casualmente i propagandisti si sono acconciati con il grazioso
nome di «comunicatori» (o «esperti in relazioni pubbliche»), ponendo un’aureola
di onestà sul carattere manipolatore di un lavoro difficilmente
controllabile.
Nel Medio Evo, le decisioni politiche erano
prese nei segreti arcani del potere: ciò che veniva concesso al popolo
erano sfilate e feste in cui i potenti davano spettacolo di sé per accrescere
il proprio prestigio (anche adesso). Con l’età dei Lumi, si costituisce una
sfera pubblica che non si accontenta di acclamare passivamente il potere, ma lo
contesta e lo discute: sta qui l’origine delle moderne rivoluzioni politiche.
Tuttavia, con
la crescente concentrazione economica e con l’emergere di un nuovo potere
politico, quello delle grandi imprese, lo spazio pubblico ha velocemente
ripreso il suo aspetto di scena ludica dove i potenti si pavoneggiano per
ottenere un consenso plebiscitario. I grandi orientamenti
politici non sono più discussi, bensì imposti con tattiche di comunicazione che
ne dissimulano le poste in gioco: è la fabbricazione del consenso, the
manufacturing of consent. Ricordate la fretta per far approvare l’indulto prima di andare in vacanza? Non sarebbe stato più onesto e democratico
indire un referendum popolare sull’argomento?.
Ci si può indignare del «passaggio dalla
democrazia rappresentativa alla democrazia consumista», ma questo stravolgimento
si limita a esacerbare fino al parossismo quelle insufficienze intrinseche alla
democrazia rappresentativa, la quale non esige affatto l’impegno di ciascuno
nella sfera politica, ma il suo esatto contrario. Poiché il concetto di
partecipazione si è ormai ridotto ad andare a
votare ogni cinque anni, non ci si può meravigliare che il potere sia stato
confiscato da professionisti della politica, esperti e altre figure
chiave del mondo della comunicazione. Lo spirito «progressista» ha la sua parte
di responsabilità in questa deriva: ha disdegnato le tradizioni popolari di autogoverno locale e non ha dato prova di alcuna chiaroveggenza di
fronte allo sviluppo industriale e mediatico, assimilandolo al
Progresso e trascurando i suoi effetti nefasti sulle condizioni concrete del
dibattito pubblico e della sovranità popolare. È quindi logico, purtroppo, che la
politica si sia ridotta sempre più a uno spettacolo (vedi Porta a Porta). La via per manipolare
l’opinione pubblica, mascherando qualsiasi politica, statale o industriale,
dietro il velo dell’interesse generale, è ormai libera.
La creazione industriale di
nuove malattie. (vedi pagina 2)
Nel Medio Evo, ciarlatani e cavadenti
promettevano già bellezza e salute, per non dire dell’eterna giovinezza, grazie
a pozioni miracolose e a elisir di lunga vita. Non è cambiato nulla.
Tralasciando l’esempio caricaturale dei cosmetici, ben altra attenzione merita
il modo, misconosciuto, con cui l’industria farmaceutica utilizza il sistema
pubblicitario per pervertire la medicina. In Francia ed in Italia, la vendita e
la pubblicità diretta dei medicinali sono teoricamente limitate: in realtà lo
sono sempre meno. Gli industriali del settore stanno cercando di raggiungere il
grande pubblico e lo fanno, «a suon di sotterfugi per raggirare una
regolamentazione restrittiva». Sarebbero tutti soddisfatti se si raggiungesse
il livello degli USA, dove in dieci anni i budget pubblicitari si
sono decuplicati e il giro d’affari dei medicinali coinvolti si è triplicato.
Non siamo ancora a questo punto, ma il sistema
pubblicitario non è meno attivo in Francia ed in Italia, dove mira al target che la legge gli consente: il medico fa le ricette. una legione di rappresentanti dei laboratori farmaceutici tampinano i
medici, c’è un rappresentante ogni nove medici! I laboratori destinano soltanto
dal 9 al 18% del loro budget alla ricerca, ovvero tre volte meno di ciò
che viene destinato al marketing. Ecco come si svolge
il lavaggio del cervello dei medici di base. All’inizio dei suoi
studi, il futuro medico scopre con piacere tutto un mondo di regali, e di
sponsor generosi che sovvenzionano serate e settimane bianche. La contropartita sembra minima, basta far finta di ascoltare una graziosa «verità
scientifica» su un dato prodotto, lo studente comincia a conoscere davvero le
patologie.
I libri su cui studia raccomandano certi
medicinali in grassetto, gli stessi di cui si ritrova la scintillante
pubblicità nella sovraccoperta o inserita tra le pagine. Libri scritti dal
«fior fiore della medicina», che ha acquisito notorietà grazie alle
sovvenzioni di “laboratori farmaceutici”. Ma per lo studente quel
testo è il riferimento indispensabile. Durante l’internato, volente o nolente,
frequenta i laboratori più volte a settimana (in occasione di «visite di
cortesia», di uscite organizzate, di «riunioni
d’informazione», ecc.). Lungo tutta la sua vita lavorativa, il medico sarà
corteggiato per il suo stesso bene: riunioni, pranzi, «soggiorni di formazione»
lo arricchiranno di un sapere preconfezionato, abilmente truccato alla bisogna
nelle riviste di riferimento o nei dépliant che vantano le proprietà del
medicinale (che
talvolta «dimenticano» di menzionare taluni effetti secondari).
Quindi, anche se i medici hanno appreso (molto di recente) ad
avere uno sguardo critico, i trucchi del mestiere funzionano sempre. Allorché i
rappresentanti cessano di incentivare i medici, il volume dei medicinali
prescritti nella zona geografica trascurata (sorvegliata con la complicità dei
farmacisti e delle mutue) precipita.
Sono dunque i rappresentanti ad acuire il
senso critico dei medici? Sì, nei confronti di malattie che non esistono e che vengono create a colpi di convegni e articoli «scientifici» ratificati da
rinomati professori. Una creazione particolarmente facile quando la frontiera
tra il normale e il patologico è così sottile. A partire da quali soglie bisogna
prendere in considerazione il tasso di colesterolo o la tensione arteriosa? La
minima flessione può creare un mercato immenso.
L’industria farmaceutica costituisce il
«gioiello della corona del capitalismo». I suoi tassi di profitto sono più alti di quelli
di qualsiasi altro settore, banche comprese, …. e spaccio illegale di droghe,
(sempre di droghe parliamo (ufficialmente autorizzate e non).
Ma per mantenerli, tenendo conto della scadenza dei brevetti, bisogna innovare
di continuo e spingere con urgenza, a dispetto di ogni prudenza, al
consumo di nuovi prodotti. Ecco in dettaglio le strategie impiegate: si
pubblica uno stesso articolo, sotto firme diverse, per aumentare la notorietà
di una nuova molecola e suggerire ai medici che i suoi vantaggi sono stati
davvero confermati; poi la si può addirittura commercializzare sotto
due nomi diversi per imporla più rapidamente (strategia detta di co-marketing); infine si fa pressione per farla prescrivere in prima battuta,
ecc. Quando le molecole divengono di pubblico dominio, si procede alla
«cosmesi» dei medicinali, scommettendo sulla celebrità del nome di marca; ad
esempio, si fa di tutto per far dimenticare che la Tachipirina non è altro che paracetamolo o l’Aspirina acido acetilsalicilico.
C’è anche la «strategia di nicchia »: i laboratori propongono il loro
medicinale nel sottodominio limitato di una patologia e in seguito «lavorano
per allargare questa nicchia, preparando i medici al depistaggio e sensibilizzando sia la stampa che il grande pubblico. Si
sono così visti nascere alcune ‘nuove’ turbe psichiatriche», come certe forme
di depressione breve o di schizofrenia precoce. (vedi pagina 2)
Davanti alla difficoltà di trovare nuovi
medicinali, i laboratori si accingono dunque a inventare nuovi
pazienti per vendere i loro vecchi prodotti. A questo fine,
essi ricorrono a tutti gli stratagemmi del sistema pubblicitario, utilizzando
le tattiche di comunicazione che si indirizzano
direttamente alle masse per il tramite dei media. Negli Stati Uniti è così
improvvisamente comparsa una nuova malattia: «la turba da fobia sociale».
Tra il 1997 e il 1998 ristagna, vi si fa riferimento, nei media, una cinquantina di volte, ma nel 1999 l’epidemia sembra
dilagare tanto che vi si fa riferimento più di un miliardo di volte.
Cosa è successo? ………..Niente, se non lo sviluppo di una vivace strategia di relazioni
pubbliche per conto di un laboratorio che cerca nuovi sbocchi per un
antidepressivo, il Paxil, le cui vendite aumentano del 18% nell’anno
2002.
Queste strategie sono pericolose, perché i
medicinali possono innestare una miriade di effetti indesiderabili,
che vanno dagli effetti collaterali benigni a quelli mortali. Un farmaco tagliafame ha ottenuto nel 1985 l’autorizzazione alla distribuzione sui
mercati (AMM): trombe e tamburi, congressi sul prodotto miracoloso che migliorerà l’alimentazione di milioni di persone, malate per aver troppo
consumato o più spesso schiave di un conformismo fisico propagandato proprio
dalla pubblicità.
In pochi anni viene quindi consumato da
sette milioni di persone e qui ci si accorge della sua pericolosità: 200
persone moriranno o subiranno gravi conseguenze. L’ingegnosità dispiegata per
massimizzare la redditività del triangolo medico-malato-laboratorio è terrificante. Il
predominio dell’immagine sulla verità è un tratto indiscutibile della
pubblicità, ma nel campo della salute è criminale, perché i medicinali sono
potenzialmente delle vere e proprie mine antiuomo. Il principio di precauzione
va a farsi fottere grazie a un’ondata di pubblicità che stimola
l’iperconsumo dei medicinali, il quale a sua volta comporta 1.300.000
ricoveri (cioè il 10% del totale!) e 18.000 decessi all’anno solo in Francia.
Coccolando l’illusione ossessiva della salute perfetta, della bellezza e della
gioventù eterne, “Big Farma” ha creato di fatto delle nuove malattie.
Il cinismo dei laboratori trova l’eguale solo
presso i loro marketers (Case farmaceutiche, dimostratori scientifici,
medici di base e farmacisti (quelli che fanno le campagne contro la liberalizzazione della vendita dei farmaceutici, così li vendono tutti loro), che sacrificano
coscientemente la nostra indipendenza, e anche la nostra vita, al Dio Profitto.
Eppure sarebbe sbagliato e ingiusto imputare al solo sistema
pubblicitario questa deriva del mondo della medicina. Di nuovo, essa non fa che
svelare, aggravandole, le insufficienze di una concezione della medicina come
assistenza focalizzata sulla prescrizione di composti chimici la cui
aggressività è causa di patologie e dipendenze.
Ora, le statistiche provano che i progressi
della salute pubblica non sono legati in modo decisivo ai medicinali moderni, ma molto più al
miglioramento delle condizioni di vita e specialmente dell’alimentazione,
vale a
dire a cose che gli individui possono controllare da sé.
Un’altra concezione della salute si profila a questo punto, una concezione
fondata sull’autonomia personale e garantita da una sana igiene di vita che
prevede il ricorso all’assistenza medica solo in certi casi particolari.
Gli «spettacolari progressi» della tecnica
medica non
solo non hanno contribuito granché all’aumento della speranza di vita, ma hanno
avuto effetti nefasti non voluti o previsti dai medici. Da un
lato questi effetti, invece di spingere gli individui a prendere in mano la
loro salute per costruire un modo di vivere più sano, hanno rinforzato l’idea
che la salute è assicurata al meglio tramite il consumo quotidiano di cure
prodigate da istanze specializzate. Dall’altro lato, sono
stati sistematicamente usati per giustificare le condizioni di vita moderne: condizioni che sono sempre più patogene! Il cancro, causa di morte primaria,
è un’epidemia legata all’industria, più precisamente a quella chimica, che è
anche alla base della farmacopea.
CONCLUSIONE
Era ora che la pubblicità provocasse una reazione
proporzionata alla ripugnanza che ispira a molti di noi: la pubblicità è in sé
infame, in quanto propaganda industriale che si spaccia per informazione e
talvolta passa per tale.
È infame per ciò che promuove: l’edonismo
adulterato, il narcisismo delle apparenze mercantili, la noncuranza cool e il
disprezzo del passato che sta dietro alla beata fittizia immagine della
nostalgia della «vera vita campestre».
È infame soprattutto perché è un potente motore di
quel consumismo e di quel produttivismo che sono all’origine del saccheggio
della natura e delle società, al quale contribuisce in misura ancora maggiore
mascherando la devastazione del mondo che ne consegue e che, malgrado tutto,
salta agli occhi.
Ogni azione, modificazione, manipolazione della
materia, della natura, dell’ambiente da parte dell’Uomo: fra cui l’industria,
il commercio, la finanza deve essere a questo punto, improrogabilmente
improntata ad una visione Etica della Realtà, della Cultura, della Società,
della Politica, se non coglieremo quest’ultima opportunità la nostra Civiltà
avrà purtroppo, ed entro breve termine, un rapidissimo declino ed una tragica
fine.
Ricordo : … Ho parlato
sempre e soltanto di spaccio di droghe
Orazio
Fergnani.
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