IL
MITO DI ARCADIA E DEL PASTORE FELICE
Di
Orazio Fergnani
Come tutti quanti mi sento nato in un posto molto particolare che mi è rimasto e rimarrà nel cuore. Il nome del posto vale un altro. Quello che voglio qui rilevare è il contesto.
I primi ricordi che ho, e che mi sono rimasti impressi nella mente risalgono a quando avevo l’età di circa due anni e mezzo. Quando tento di riandare a quel periodo mi vedo bambino magrissimo con pantaloncini corti con gli “straccali” (come si dice a Roma) e camicetta; e vicino a me un classico carrettino siciliano variopinto con il cavallo entrambi in legno. Era il mio giocattolo più caro. E per me era la cosa più bella del mondo, lo coccolavo come se fosse stato un cavallo vero, ci giocavo per delle giornate intere, e dire che i cavalli veri nel corso della mia vita non mi sono mai piaciuti.
Io vivevo in campagna, come la stragrande maggioranza degli Italiani di allora all’inizio anni cinquanta. Abitavamo in un casale della bonifica pontina che era stato riscattato da mio nonno all’Opera Nazionale Combattenti.
La famiglia patriarcale era composta da mio nonno e mia nonna (genitori di mio padre), dalla famiglia di mio padre (mia madre, mio padre, mio fratello, ed io), e dalla famiglia di mio zio (composta da lui, mia zia e dai miei tre cuginetti). Io non me ne rendevo conto in quel momento, ma ripensando ai ritmi ed agli orari di tenuti da mio padre e dagli altri componenti (in particolare gli adulti) della famiglia la vita di campagna, come in ogni epoca, era sicuramente più dura che in città.
Tutti facevano qualcosa, tutti avevano un compito ed un ruolo, anche noi bambini avevamo i nostri begli incarichi e lavoretti da svolgere nell’arco della giornata. Tutti i giorni. Anche la domenica. Per tutto l’anno.
Questo ritmo di vita ti permetteva ed anzi obbligava al contatto diretto e continuo con la concretezza e pragmaticità delle cose e ti forgiava quel profondo senso di equilibrio e costante controllo derivante dal riferimento giornaliero ai ritmi inalterati, ripetitivi, alla dimensione inalterabile ed all’immutabilità degli elementi essenziali dell’ambiente e del contesto.
Il parto di una vacca per esempio era un evento che si ripeteva frequentemente, ogni volta uguale e formidabile, e per noi bambini incomprensibile ma anche abituale, facente parte della normalità interiorizzata del contesto e non era considerato vergognoso, scandaloso, osceno.
La schiusa delle uova dei pulcini, l’uccisione di un maiale, la bollitura della biancheria tutte le settimane di cui si occupava mia nonna per tutti i componenti della famiglia, la trebbiatura, la vendemmia, le lunghe giornate invernali passate tutti nella grande cucina ognuno occupato a fare qualche lavoro in attesa che tornasse il bel tempo, sono tutte immagini che fanno parte della mia memoria e della mia essenza di individuo.
Io sono tutte quelle cose, ed altro, e nessuno può scinderle da me.
Rivalutando con la mia mente di oggi tutti quegli aspetti e cercando di dare una appetibilità ed accettabilità a quegli aspetti di vita di allora, mi domando : < oggi apprezzerei allo stesso modo in cui apprezzavo allora questi aspetti della mia vita contadina e la vita contadina di allora tout court? >. Difficile dare una risposta oggettiva, proprio per gli elementi che sono in gioco, e soprattutto perché chi giudica (io) non è giudice imparziale ed arbitro neutrale.
Però volendo comunque fare il paragone ed il confronto con la vita che io personalmente, ma tutti conduciamo oggi da euroschiavi dico senza tema di smentita che : si la vita era più degna di essere vissuta allora con i ritmi di allora, e sarebbe tuttoggi senz’altro più onorevole e desiderabile della vita che conduciamo.
E con piccoli aggiustamenti ottenibili con strumenti che oggi conosciamo ed abbiamo a disposizione potremmo creare davvero una nuova Arcadia, ed il mito del pastore felice non sarebbe più soltanto un mito.
Certo non erano tutte rose e fiori, scarseggiavano i beni materiali, i cosiddetti beni di consumo, ma tutti, anche nelle famiglie vicine avevano gli abiti di tutti i giorni, gli abiti d lavoro, ed anche il vestito della festa, che si metteva rigorosamente solo la domenica o le altre feste comandate, il superfluo non esisteva, e non poteva esistere in un sistema come quello.
Ma gli elementi essenziali, importanti c’erano tutti la stima delle persone, dei vicini, l’aiuto vero, sostanziale, solidale, vicendevole fra vicini, in occasione dei grandi lavori, ad esempio per la trebbiatura era fatto scontato, formalizzato, istituzionalizzato, ma non finto, reale, partecipativo, convinto.
Dove esiste più tutto questo?
Questi sono valori assoluti, inalienabili di qualunque società e deve essere assolutamente ed inderogabilmente recuperato e restaurato se vogliamo che l’attuale società non si disgreghi in tante caste e tante sottoculture a compartimenti stagni, come sta ormai accadendo da almeno tre decenni.
Senza quello spirito e quei valori non c’è collante, e non c’è società.
Lo dice la psicanalisi e la psicologia che sono l’esempio, azione e la dimostrazione personale, reale, in presa diretta, viva, la forma di comunicazione più pregnante e massiva.
Quale miglior comunicazione dell’azione in comunione, del lavoro collettivo, dell’aiuto reciproco, della partecipazione attiva ad un unico evento che senza la partecipazione di ciascuno, anche del più piccolo ed insignificante come noi bambini, che avevamo assegnato il compito di acquaioli e portatori di vino, potrebbe raggiungere il soddisfacente ed utile compimento, il fine?
Mi ricordo perfettamente e con estrema lucidità la grande fatica del lavoro prevalentemente manuale delle donne e degli uomini e delle lunghe giornate di mezza estate in cui si raccoglievano i covoni falciati ed accatastati nei campi e si portavano nell’aia dove stazionava il trattore con la trebbiatrice e dove una quindicina di persone si indaffaravano senza sosta dall’alba al tramonto per due, tre, quattro o più giorni.
E rammento altrettanto bene e con grande gioia le feste ed i lunghi pranzi che si tenevano alla fine della mietitura (soprattutto se il ricavato era stata abbondante) dove tutti partecipavano, si raccontavano episodi, amenità, barzellette, si cantava e si ballava sull’aia, con gioia da baccanale, una gioia trascinante, carnevalesca.
Tutti conoscevano tutti personalmente nel raggio di almeno cinque chilometri, tutti salutavano tutti e spesso si scambiavano due parole con il viandante sconosciuto.
Il giovedì in paese c’era il mercato, e io spesso ci andavo o con mia nonna o con mia madre, ed era anche quello un motivo di incontro e di relazione, di vera amicizia, non di apparenza, come da abitante in città molto rarissimamente mi è capitato di riscontrare.
Io rivoglio quel mio mondo.
Lo voglio perché io ne ho bisogno.
Tutti ne abbiamo bisogno.
Voglio l’equilibro che non ho più.
Voglio i miei punti fermi.
Voglio il mio punto di gravità permanente.
Perché solo cosi tutti noi possiamo ritararci e continuamente ridimensionare il nostro ego.
Dal momento della caduta della fede negli “….ismi” e della chiesa cattolica non ci è rimasto altro che credere nei rapporti profondi tra uomini : rispetto, stima, considerazione, amicizia, altruismo, solidarietà.
Mia nonna spesso portava non denaro, ma molte decine, forse centinaia di uova delle galline al mercato e con il ricavato comprava il parmigiano, la pasta, lo zucchero ed il sale. A noi non occorreva altro per completare la gamma degli alimenti necessari al sostentamento della famiglia, perché avendo la fattoria avevamo tutto quanto ci necessitava. Ed allora mia nonna, quando dalla vendita delle uova ricavava qualche soldo in più comprava qualche indumento per chi ne aveva più bisogno.
Tutto questo lungo prologo per arrivare a descrivere il punto focale di questa mia riflessione, e cioè che le abitudini e gli usi protoindustriali erano molto diversi, erano alla loro alba, o erano di là da venire e il consumismo non si sapeva ancora cosa fosse.
Assieme a questi ricordi miei personali ricordo ancora molto lucidamente una serie di episodi che sono anche un po’ culturali e generali.
Solitamente si cenava alle cinque e mezza di sera al lume di candela e poi noi bambini si andava a letto (la televisione ancora non esisteva), gli uomini andavano in paese a scambiare qualche chiacchiera al bar e le donne si mettevano a cucire o a preparare qualcosa da mangiare per il giorno dopo, perché non c’era corrente elettrica, quando però una fatidica sera ci raccogliemmo tutti nella grande cucina, dove si cenava, in attesa del grande evento. Quella sera, dopo giorni di lavoro per realizzare autonomamente la linea elettrica assieme a tutti i nostri vicini finalmente avevamo avuto accesso alla corrente elettrica.
Una piccola fievole lampadina che faceva una luce ballonzolante meno luminosa di una candela, ma per noi era una epocale conquista, e lo era davvero.
Da quel momento la vita anche nelle campagne, e non solo, cambiò.
Per tornare alla spesa di mia nonna devo aggiungere ancora tutta una serie di elementi.
Come dicevo ella comprava solo zucchero, sale, pasta, parmigiano, pepe, noce moscata, non mi ricordo altro, quasi sicuramente perché altro non comprava.
Mia nonna o mia madre andavano al mercato a fare la spesa una volta la settimana (ed era sufficiente) e vi si recavano in bicicletta, con me sul manubrio, e con le sporte attaccate al manubrio.
In queste sporte al ritorno dal mercato avevano messo un cartoccio fatto con la carta blu “da zucchero” per lo zucchero, un cartoccio simile ma con la carta gialla per il sale, la pasta, se erano spaghetti erano avvolti solo da un lato con un cartoccio, se erano maccheroni, semplicemente li mettevano sfusi dentro una delle sporte fatte apposta in cotone bianco che periodicamente si lavava, altri cartocci per il pepe, per la noce moscata, o altro.
D’estate poi io andavo ancora più volentieri perché spesso mia nonna o mia madre si fermavano dal gelataio e mi compravano un bel gelato artigianale fatto con le uova, latte e zucchero, nient’altro. tre soli gusti, crema, zabaione, pistacchio (manco il cioccolato, arrivò molto dopo).
Finita la spesa mia nonna o mia madre tornavano dal gestore della rimessa delle biciclette dove anche con lui si soffermavano a parlare dei problemi di famiglia, e poi dopo aver caricato le sporte e me, tornavano a casa pedalando per un tre quattro chilometri, fermandosi magari di tanto in tanto per parlare con qualche conoscente che si incontrava per la strada.
Ragazzi vi garantisco sul mio onore che quello che sto raccontando è la sacrosanta verità.
Io rivoglio quel mondo.
Mi serve.
Mi manca.
E’ come se fossi drogato e mi sentissi in crisi di astinenza.
Era un mondo pulito.
Dentro.
E fuori.
Un mondo senza immondizia.
Senza immondizia reale
E senza immondizia morale.
Perché non se ne creava.
Addirittura per andare al gabinetto, si usava una struttura affianco al letamaio del letame delle vacche.
I liquami del gabinetto (era proprio una piccola gabbina) confluivano dal pozzo nero nel letamaio ed anche i nostri scarti venivano inglobati nel letamaio, e poi al momento dell’aratura il letame con tutti i nostri scarti (che erano una minimissima parte rispetto al letame della stalla) venivano interrati a fertilizzare naturalmente la terra.
Le bottiglie erano tutte di vetro e ci si pagava il deposito, che era caro (i miei ricordi più antichi risalgono a quando già abitavo a Roma e il deposito della bottiglia del latte della centrale costava cento lire, che era una bella somma).
Non esisteva quasi per nulla prodotto a marchio, non almeno nei prodotti di consumo quotidiano.
Non esistevano quasi per nulla scarti (da carta? Scartare, togliere dalla carta? Penso proprio che derivi da carta).
La poca carta che si scambiava durante l’acquisto dello zucchero o del sale veniva usata per asciugare le fritture, o utilizzi simili.
Non esisteva la plastica.
Semplicemente non esisteva e non se ne sentiva la mancanza. Pure se non ho nulla in contrario all’utilizzo moderato ed utile della plastica.
Non esistevano imballaggi.
Non erano necessari, per mille motivi, in particolare perché la stragrande maggioranza dei prodotti era prodotta sul luogo o nelle vicinanze, ma soprattutto perché la maggior parte viaggiava sfuso in grandi contenitori, i quali a loro volta venivano recuperati.
Mi ricordo che la varechina , fra l’altro molto più concentrata che l’attuale, la vendeva un ambulante che con un triciclo a motore la portava sfusa in dei fusti e la vendeva sfusa passando davanti ai cancelli, a volte scambiandola con dei metalli, alle donne che si facevano riempire dei bottiglioni e delle taniche da loro portate.
Il sapone molto spesso lo facevamo in casa con le ossa degli animali, la soda, la cenere e l’olio, ma quando finiva o non c’era più materia prima lo si comprava al chilo, tagliandolo a tocchi con una specie di accetta.
Molto più serio di oggi.
Ed era fragrantissimo, e lavava altrettanto bene dell’attuale, chissà forse anche meglio.
Quando si macellava il maiale si invitavano i vicini a mangiare i sanguinacci e le frattaglie che bisognava consumare al più presto altrimenti andavano a male perché non esisteva il frigorifero (sarà stata anche una necessità, ma era anche un divertimento e un’ulteriore occasione di stare insieme accomunati ai vicini).
E del maiale non restava niente, neanche le ossa o la pelle, pure le setole erano utilizzate per i pennelli.
Non c’era scarto.
Non c’erano rifiuti.
Non c’erano rifiuti pericolosi e speciali.
Semplicemente perché non se ne creavano.
Non c’erano le discariche.
Non c’erano termovalorizzatori né inceneritori
Semplicemente perché non servivano.
E sono convinto che non avremmo mai iniziato quel percorso se avessimo saputo che sarebbe finita così.
Ho incominciato a sentire e leggere la pubblicità dei marchi delle aziende dei prodotti di consumo dopo il 1956 quando sono apparse in massa le scatole, i cartoni, le lattine, i vuoti a perdere……
Prima non è che questi marchi, queste aziende non esistessero, campavano benissimo lo stesso facendosi pubblicità con l’unico argomento veramente onesto …………… l’apprezzamento della qualità da parte del consumatore.
Non potremmo tornare alle mie origini?
Sono convinto che a breve saremo costretti a tornarvi forzatamente.
Io sono il pastore felice.
Io sono ateo convinto, anticlericale ed antipapale militante, anarchico in senso lato, ma credo fortemente nei valori cementanti la società e gli individui e sulle esperienze e le ritualità condivise.
Tutti concetti a cui ognuno concede valenze diverse ed interiorizzazioni personali uniche e soggettive, tutte differenti certamente da quelle di tutti gli altri, ma ciononostante, quelle profonde impressioni e sensazioni che ci hanno impregnato e permeato così profondamente nelle nostre esperienze passate sono diventati patrimonio comune, a cui, quando andiamo con la mente, ci riportano al profondo senso dell’appartenenza ad un’etnia, a dei riti collettivi, ad una identità culturale.
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