Socialismo e azione
rivoluzionaria in Louis Auguste Blanqui
Louis Auguste Blanqui rappresentò il punto più alto della
riflessione del neo-babouvismo, cioè il cosiddetto «socialismo dell’azione», e
il superamento di esso: il suo insegnamento è già pienamente attuale e la sua
teorizzazione fu sempre, e lo è tuttora, causa di dibattito politico; il
Blanqui fu ed è oggetto di una larghissima attenzione da parte di storici, di
politici, di militanti.
Rivoluzionario, anzi "insurrezionalista" puro, che trascorse in carcere gran parte della sua vita, Blanqui si dette sin dai primi anni della "Monarchia di Luglio" all’attività politico-cospirativa
Vicepresidente della "Societè des Amis du Peuple", egli assimilò l’idea babouvista dell’ineluttabilità della "guerra tra i ricchi e i poveri".
È suo merito aver assunto dalla Tradizione rivoluzionaria giacobina e babouvista (la cospirazione per l’uguaglianza di Babeuf) lo spirito di rivolta ma di averlo innestato nel conflitto del popolo e del proletariato per la loro emancipazione e per la conquista del potere.
Per questo Blanqui può essere considerato il maggior rivoluzionario socialista dell'ottocento, affiancabile a Marx ed Engels, dei quali fu precursore sia intellettualmente che politicamente.
Il suo pensiero economico, nonostante la novità del collegamento del socialismo all’effettività della Rivoluzione, non fu sempre però totalmente originale, ed egli fu debitore verso l’anticapitalismo inglese e anche verso Proudhon.
Più volte ebbe a riaffermare che importante non era tanto il pensiero, quanto il fatto, l’azione rivoluzionaria, e che il socialismo o meglio, la Repubblica Sociale, avrebbe costituito un qualcosa che sarebbe cresciuto dopo l’affermarsi del fattore eversivo e alla cui elaborazione e costruzione avrebbe contribuito decisamente la preparazione per la Rivoluzione e la lotta stessa del Popolo, del proletariato, del suo gruppo dirigente.
Per questo fu considerato la "testa e il cuore" del partito proletario francese, e questo anche se Marx ed Engels gli rimproveravano la concezione della "rivolta-insurrezione", avviata inizialmente da pochi, dall’élite rivoluzionaria, la quale non si proponeva di dirigere le masse, bensì di offrire a queste la Rivoluzione, se non totalmente portata a termine, almeno già impostata e suscitata.
Blanqui fu teorico dell’Azione Rivoluzionaria: ma questa avrebbe dovuto rappresentare solo l'avvio insurrezionale, perché il compito del completamento della Rivoluzione, così come quello dell'edificazione del Socialismo, sarebbe spettato alla classe lavoratrice.
Si arguisce perciò che fondamentali per lui, anche da un punto di vista teorico, furono i motivi della "tattica rivoluzionaria", del modo cioè di come pervenire al fatto.
Nel quadro di questa tattica, che diventava strategia -per Blanqui la rivoluzione era arte-, egli proponeva per il proletariato e per i rivoluzionari, che però più che altro coincidevano con l’intellettualità piccolo-borghese, organizzazioni autonome, quali le associazioni segrete o pubbliche, che egli personalmente fondò, e nelle quali era evidente il criterio dell’organizzazione che influenzò anche il fascismo sansepolcrista, cioè un’organizzazione gerarchizzata, in vista di una razionalizzazione organizzativa meglio atta al raggiungimento dello scopo finale.
Blanqui accettava però una politica di alleanze con altri ceti e gruppi sociali, aventi gli stessi fini del proletariato e proponentisi quale unico impegno la lotta.
Questo, mentre metteva in luce i limiti e i pericoli della democrazia, anche di quella più perfezionata e avanzata, e notava che i ceti oppressi erano sempre stati sfruttati a vantaggio dell'alta borghesia, che aveva tutto l'interesse a mantenere immutato l'ingiusto ordine di cose.
Già in uno degli interventi pubblici giovanili, la difesa in un processo intentatogli nel 1832 (il primo di una lunga serie che lo avrebbe condotto a soffrire complessivamente, in varie riprese, per ben 35 anni in prigione) scriveva: «La prova più significativa del fatto che quest'ordine di cose non è istituito se non in vista dello sfruttamento del povero da parte del ricco, che non si è ricercata altra base se non quella di un materialismo ignobile e brutale, è che l’intelligenza è colpita da ilotismo; effettivamente, essa è una garanzia di moralità, e la moralità introdotta inavvertitamente in un simile sistema non potrebbe entrarvi se non come elemento infallibile di distruzione». (*)
Questa volontà distruttiva del presente, paragonabile con la "gioia distruttrice" dello squadrismo fascista, aveva per Blanqui il fine immediato dello stabilimento della Repubblica Sociale con l’instaurazione di una dittatura rivoluzionaria, in vista dell’avvento del Socialismo.
La dittatura rivoluzionaria concepita da Blanqui era realistica; egli mirava infatti a individuare sia il gruppo dirigenti sia il "partito-guida", che avrebbe costruito il nuovo ordine sociale; intendeva predisporre l’organizzazione armata, atta a resistere dapprima e a trionfare poi nello scontro di classe; voleva infine sì limitare la libertà individuale, ma soltanto per potere dilatare, fin dal presente, quella del popolo.
Ne sarebbe nata una società libera e socialista: perché, per Blanqui, come poi per Benito Mussolini e il Socialismo-fascista, la dittatura rivoluzionaria continuava ad essere un "mezzo" e non un "fine".
Note:
(*) Blanqui: "Textes choisi" - Editions Sociales, Paris l955. pp. 85-92.
Rivoluzionario, anzi "insurrezionalista" puro, che trascorse in carcere gran parte della sua vita, Blanqui si dette sin dai primi anni della "Monarchia di Luglio" all’attività politico-cospirativa
Vicepresidente della "Societè des Amis du Peuple", egli assimilò l’idea babouvista dell’ineluttabilità della "guerra tra i ricchi e i poveri".
È suo merito aver assunto dalla Tradizione rivoluzionaria giacobina e babouvista (la cospirazione per l’uguaglianza di Babeuf) lo spirito di rivolta ma di averlo innestato nel conflitto del popolo e del proletariato per la loro emancipazione e per la conquista del potere.
Per questo Blanqui può essere considerato il maggior rivoluzionario socialista dell'ottocento, affiancabile a Marx ed Engels, dei quali fu precursore sia intellettualmente che politicamente.
Il suo pensiero economico, nonostante la novità del collegamento del socialismo all’effettività della Rivoluzione, non fu sempre però totalmente originale, ed egli fu debitore verso l’anticapitalismo inglese e anche verso Proudhon.
Più volte ebbe a riaffermare che importante non era tanto il pensiero, quanto il fatto, l’azione rivoluzionaria, e che il socialismo o meglio, la Repubblica Sociale, avrebbe costituito un qualcosa che sarebbe cresciuto dopo l’affermarsi del fattore eversivo e alla cui elaborazione e costruzione avrebbe contribuito decisamente la preparazione per la Rivoluzione e la lotta stessa del Popolo, del proletariato, del suo gruppo dirigente.
Per questo fu considerato la "testa e il cuore" del partito proletario francese, e questo anche se Marx ed Engels gli rimproveravano la concezione della "rivolta-insurrezione", avviata inizialmente da pochi, dall’élite rivoluzionaria, la quale non si proponeva di dirigere le masse, bensì di offrire a queste la Rivoluzione, se non totalmente portata a termine, almeno già impostata e suscitata.
Blanqui fu teorico dell’Azione Rivoluzionaria: ma questa avrebbe dovuto rappresentare solo l'avvio insurrezionale, perché il compito del completamento della Rivoluzione, così come quello dell'edificazione del Socialismo, sarebbe spettato alla classe lavoratrice.
Si arguisce perciò che fondamentali per lui, anche da un punto di vista teorico, furono i motivi della "tattica rivoluzionaria", del modo cioè di come pervenire al fatto.
Nel quadro di questa tattica, che diventava strategia -per Blanqui la rivoluzione era arte-, egli proponeva per il proletariato e per i rivoluzionari, che però più che altro coincidevano con l’intellettualità piccolo-borghese, organizzazioni autonome, quali le associazioni segrete o pubbliche, che egli personalmente fondò, e nelle quali era evidente il criterio dell’organizzazione che influenzò anche il fascismo sansepolcrista, cioè un’organizzazione gerarchizzata, in vista di una razionalizzazione organizzativa meglio atta al raggiungimento dello scopo finale.
Blanqui accettava però una politica di alleanze con altri ceti e gruppi sociali, aventi gli stessi fini del proletariato e proponentisi quale unico impegno la lotta.
Questo, mentre metteva in luce i limiti e i pericoli della democrazia, anche di quella più perfezionata e avanzata, e notava che i ceti oppressi erano sempre stati sfruttati a vantaggio dell'alta borghesia, che aveva tutto l'interesse a mantenere immutato l'ingiusto ordine di cose.
Già in uno degli interventi pubblici giovanili, la difesa in un processo intentatogli nel 1832 (il primo di una lunga serie che lo avrebbe condotto a soffrire complessivamente, in varie riprese, per ben 35 anni in prigione) scriveva: «La prova più significativa del fatto che quest'ordine di cose non è istituito se non in vista dello sfruttamento del povero da parte del ricco, che non si è ricercata altra base se non quella di un materialismo ignobile e brutale, è che l’intelligenza è colpita da ilotismo; effettivamente, essa è una garanzia di moralità, e la moralità introdotta inavvertitamente in un simile sistema non potrebbe entrarvi se non come elemento infallibile di distruzione». (*)
Questa volontà distruttiva del presente, paragonabile con la "gioia distruttrice" dello squadrismo fascista, aveva per Blanqui il fine immediato dello stabilimento della Repubblica Sociale con l’instaurazione di una dittatura rivoluzionaria, in vista dell’avvento del Socialismo.
La dittatura rivoluzionaria concepita da Blanqui era realistica; egli mirava infatti a individuare sia il gruppo dirigenti sia il "partito-guida", che avrebbe costruito il nuovo ordine sociale; intendeva predisporre l’organizzazione armata, atta a resistere dapprima e a trionfare poi nello scontro di classe; voleva infine sì limitare la libertà individuale, ma soltanto per potere dilatare, fin dal presente, quella del popolo.
Ne sarebbe nata una società libera e socialista: perché, per Blanqui, come poi per Benito Mussolini e il Socialismo-fascista, la dittatura rivoluzionaria continuava ad essere un "mezzo" e non un "fine".
Note:
(*) Blanqui: "Textes choisi" - Editions Sociales, Paris l955. pp. 85-92.
Nessun commento:
Posta un commento